30 maggio 2018


Corto circuito. Tutte le visioni di Tamara Repetto esplodono nei Tableaux parfumés. Senza dubbio, le più emblematiche tra le sue opere: non solo perché ne attraversano la ricerca da oltre dieci anni, ma perché incarnano gli aspetti fondamentali della sua cifra stilistica e della sua pratica artistica. L’eleganza, innanzitutto. Data da una disposizione a mosaico, architettonicamente tendente all’ordine e alla pulizia. Una volontà estetica che traduce un bisogno intimo, sottolineato dalla scelta dei materiali: saponette d’albergo di piccolo formato, limpido riferimento alla purezza e, in maniera appena più sottile, al transito e all’impermanenza. Correlativi di un nomadismo interiore e fisico che vanno a comporre e percorrere lavori in cui, come da luminosi pavimenti di antichi portici, spuntano humus, aghi di pino, rami, piume, polvere di legno. È soprattutto tra gli alberi dei suoi due mondi (il Lussemburgo o quel basso Piemonte che è già Liguria, zona ibrida anche quella) che Repetto va ad incontrare le cose con cui apparecchia le nozze tra memorie dal sottobosco che, lanciate incollate montate infilate sul bianco assoluto, anziché sporcarlo ne esaltano la purezza.
E in agguato c’è un altro cortocircuito: perché, mentre invita ad un contatto profondo con la natura, allo stesso tempo l’artista ne sottrae l’esperienza sensoriale (e sensuale). Le saponette sono state infatti “disinnescate” da una vernice trasparente che ne ha bloccato la traccia olfattiva. Inciampo imprevisto, per lo spettatore pronto ad un esito scontato; idea brutale e polemica nascosta sotto una forma squisita, delicatissima.
I Tableaux si pongono dunque come critica alla società anosmica e de-odorata, che preferisce mettere filtri e stordirsi con profumi sintetici pur di tenersi lontana dall’“altra” essenza: quella autentica, e piena, di una realtà intrisa d’amore e di malattia, di dolore e di bellezza. Quella che Repetto non rifiuta, ma affronta con un lavoro lento e meditativo, ricercando in primo luogo il silenzio dentro di sé. Una routine performativa ascetica e solitaria, necessaria non per far vuoto emotivo, ma per dosare e trasferire energie: un continuo sentire e ascoltarsi, vibrando ipnoticamente intorno alla superficie dei piccoli saponi. Che l’artista ritaglia, leviga o scalpella in onde carezzevoli; dove scava minuziosamente – ed emblematicamente – piccoli tarli usando un oggetto “sentimentale” come il vecchio trapano a mano di suo nonno.
È questo il momento in cui, seguendo una corda tesa fra viscere e mente, l’armonia compositiva può deragliare verso un opus incertum, e il quadro d’insieme prendere con un ritmo diverso, convulso o intermittente. È questo il momento in cui, in ossequio alla filosofia wabisabi, il residuo si fa poesia, e la sottrazione crea atemporalità e sospensione. Accettando il rischio di rompere qualcosa di fragile.

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