Carlo Crivelli

23 dicembre 2009

Milano, Pinacoteca di Brera

Il bicentenario della pinacoteca chiude in bellezza. Ed eleganza. Dedicando tre sale alla ricomposizione di alcune “sconcertanti” macchine d’altare di Crivelli. Una corsa all’oro per riscoprire un maestro del Quattrocento…

“Oro e colori preziosi” volevano i committenti. E lui quelli dava. Insieme a quel quid chiamato stile. Quello con cui Carlo Crivelli (Venezia, 1430 ca. -Ascoli Piceno (?), 1494/95) si consegnò a una storia non sempre generosa con lui. Mestierante del virtuosismo, attardato sul gotico fulgido d’oro e decori, pur contemperato con la lezione padovana e la nuova spazialità rinascimentale, e caratterizzato da splendidi brani di natura morta camuffati tra trionfi di foglie e frutti, finì “stritolato” dal nuovo che inesorabilmente avanzava. E poco giovò alla sua fama l’essersi scelto una collocazione “periferica”, quelle Marche in cui la Urbino dei Montefeltro – e di Piero della Francesca – faceva da padrona. Terra affacciata a Oriente, dove la sepolta Bisanzio gli lasciava in eredità il più nobile fra i metalli e le trame dei tappeti anatolici. Terra in cui, anni dopo, sarebbe approdato un altro “compaesano” eccellente, Lorenzo Lotto, anch’egli di rendimento altalenante e, talvolta, curiosamente regressivo. Esempi. Il San Francesco che raccoglie il sangue di Cristo, quasi formato cartolina, è una composita lezione d’equilibrio, dal paesaggio fiammingo alla legnosa anatomia mantegnesca, dallo scorcio ardito al parato di lusso. Stesso anno, il 1490, ma la lunetta con la Pietà calca sull’espressionismo: intagliato e terreo il Cristo che più nordico non si potrebbe, e contro il cielo incupito troppo stride il fasto di marmi e damaschi. L’Incoronazione della Vergine, ultima tavola certa, svincola le proporzioni, e la composizione, zeppa di angeli, si fa disarmonica. Nota stonata in un pittor cortese, per il quale l’abito fa il… santo: campioni ed eroine della fede sfilano in stoffe ricercate, riprodotte alla perfezione, trait d’union con arti specializzate che collaborarono a queste grandi macchine d’altare con dettagli “vivi”, aggettanti (le chiavi di san Pietro, la corona, il pugnale di san Pietro Martire del Trittico di San Domenico). Più che porsi come monografica completa, la mostra cerca, nell’ambito del bicentenario braidense, di ricomporre le dispersioni toccate ai polittici, trafugati dai commissari napoleonici per essere condotti a Milano, e in seguito smembrati. Ad anticipare la burrascosa “fortuna” crivellesca è, del resto, il significativo incipit del piccolo percorso, ovvero l’assenza della Pala di San Pietro in Muralto, oggi a Berlino e qui in riproduzione fotografica. Cuore dell’esposizione il Polittico del Duomo di Camerino, centrato sulla Madonna della Candeletta, capolavoro di leggiadria e illusionismo. In mezzo al tipico festone vegetale, mirabili l’enigmatica purezza del volto della Vergine e la grazia del Bambino che, più che una bella pera polposa, pare tenga in mano archetto e violino. Davanti, il cero sottile e la sua ombra disegnano un trompe-l’oeil degno del miglior Surrealismo, appoggiato al diaframma invisibile che divide l’opera dallo spettatore.

Zona limbica privilegio dell’artista, che in quella candeletta stessa sembra apporre il proprio sigillo. Firma parlante, più di mille cartigli.

 

anita pepe

mostra visitata il 28 novembre 2009

 

 

 

 

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