Clegg & Guttmann

15 gennaio 2008

Napoli, Lia Rumma

È logico, in pratica. Cinque “giochi” per i sensi e l’intelletto, cinque esercizi cognitivi per un concettuale-materiale che, percorrendo a ritroso il futuro, va dritto al cuore ligneo del Rinascimento. A tentoni, aguzzando la vista e drizzando le orecchie…

Chissà perché, lo Studiolo napoletano di Clegg & Guttmann (Michael Clegg, Dublino, 1957, e Martin Guttmann, Gerusalemme, 1957; vivono a New York e San Francisco) fa venire in mente la Tavola Strozzi. Forse per le pareti dipinte di verde, tra i colori di spicco della celebre veduta quattrocentesca di Napoli. Forse per il legno delle installazioni e delle tarsie che la coppia israeliana, al terzo impegno da Lia Rumma, ha scelto come testimoni di una pindarica staffetta fra il presente e il tempo in cui i signori colti e doviziosi, collezionisti esigenti e selettivi, amavano rintanarsi in uno sfaccettato microcosmo enciclopedico, congegnato a immagine e somiglianza del suo illustre inquilino e padrone: lo studiolo, appunto. Di tali scrigni è costellato il Rinascimento, parola che rimorde la coscienza di una metropoli ancora incerta sul suo recente passato e più che mai bisognosa, se non di una palingenesi, di una civile normalità. Dunque, quanto affascinante appare, qui e ora, l’utopia della città ideale, e quanto acuto il desiderio di rifugiarsi in una nicchia per lo spirito. Troppo scontato nascondersi tra i pixel di Second Life, assurdo ricreare ambienti in stile. Così, sull’ossatura della Storia, Clegg & Guttmann progettano un itinerario logico-sensibile attraverso cinque “esercizi cognitivi” e, in antitesi rispetto al loro maestro Kosuth, rileggono il concettuale quale esperienza pratica, agìta attraverso la stimolazione fisica. Una vocazione empirica che, da Galileo, Campanella e Bacon, retrocede fino all’assioma tomistico “niente è nell’intelletto che non sia stato prima nel senso”, per rinchiudersi nella Sfera musicale, dove le proiezioni, associate ai suoni, evocando la Caverna platonica, ricordano il diaframma frapposto tra la realtà e la sua percezione.

Una “macchina del pensiero” fatta di semplici geometrie che, coinvolgendo soprattutto vista, tatto e udito, sollecita a organizzare in anomale categorie il catalogo d’una biblioteca piramidale, sfida a coordinare l’uno e il molteplice in un Canone tra mandolini (molto site specific) e invita, dopo averlo tastato, a ricostruire con memoria e gessetti l’Oggetto nascosto nella “torre” circondata da una lavagna spiraliforme. Esplicito il riferimento a Bruegel nel titolo dato alle pedane di altezza graduale su cui svolgere un “passaparola” grafico: i Cinque ciechi (altro lavoro fortemente partenopeo, essendo il dipinto citato custodito nel Museo di Capodimonte). E molto c’è di fiammingo nelle foto in mostra: la luce piatta e diffusa, i toni caldi degli ocra e dei marroni, la trasgressione dei rapporti di proporzione e dei piani prospettici e, soprattutto, il paesaggio, “prolungamento virtuale” dello studiolo, nel quale smilze figurine ispirate a Bosch e Cranach intrecciano girotondi e danze macabre.

Un Eden primordiale su cui incombe la (post) modernità, dove la dicotomia natura/cultura tanto cara all’arte contemporanea si riaffaccia, per catapultare lo spettatore in un inquietante futuro remoto.

 

anita pepe

mostra visitata il 18 novembre 2007

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