Spuntature, è proprio il caso di dirlo, nei cento passi che dividono il Lingotto, sede di Artissima, e l’ex fabbrica Carpano, sede di Eataly. Per scovarvi affinità e divergenze, fra stand artistici e gastronomici. Dove la fame impazza, reale o metaforica…
I cento passi, o suppergiù. Senz’altro nessuno, nei giorni di Artissima, s’è preso la briga di misurare la distanza tra la Fiera e l’ex Carpano, dove non pochi si saranno concessi un break. Perché, dal gennaio 2007, in questa storica fabbrica di vermouth abita Eataly: Bengodi per Luculli postmoderni, affollato tempio del Buon Mangiare in un Bel Paese costretto a tirare la cinghia già prima della famigerata terza settimana. Paese dove il cibo è più che mai status symbol: i borghesi piccoli piccoli e i nuovi poveri si saziano col prosciutto cinese “resuscitato”, i radical chic del consumo intelligente e responsabile si scelgono una a una le lenticchie di Castelluccio e gentilmente le irrorano d’“olio bòno”, fieri d’aver riscoperto i sani, genuini sapori d’una volta, rigorosamente controllati e locali. Paradossale e utopistico, in un mondo sommerso di merda da cielo, terra e mare. Anacronistico, in un’economia globale e geneticamente mortificata, e in un’Italia che, anche quando si tratta di salvare il palato nazionale, non esita a batterci la lingua straniera. Eppur coerente in tempi di Grande Crisi, al riaffacciarsi non tanto dell’indigenza reale, quanto del suo, più inquietante e ancestrale, spettro. In fondo, per esorcizzare la fame, cosa c’è di meglio che stuzzicare l’appetito? Il cibo diventa così ubiquo, in primis chez Sua Maestà la TV, dai canali monotematici alla rubrica culinaria cui ormai nessun tg rinuncia. Cibo mediatico, simbolico, incorporeo: non più masticato, insalivato, digerito, defecato, ma ammirato, annusato, degustato, esperito insomma con tutti i sensi, proprio come l’arte contemporanea; caricato di orpelli estetici e di benefici medici, ma depurato del banale, plebeo principio di necessità e travestito da educazione alimentare per rimarcare le differenze di classe: da un lato, i benestanti istruiti e magri, che si nutrono correttamente senza lesinare sulla qualità; dall’altro, i poveri ignoranti e obesi, che mangiano male trangugiando porcherie discountate. Cosa accadeva, dunque, nei giorni di Artissima, a quei cento passi o suppergiù di distanza? Accadeva che andavano in scena due facce di uno stesso elitarismo. I collezionisti cacciavano il tesoro tra i box delle gallerie, i ghiottoni lo inseguivano tra i “ristorantini” e le scansie di Eataly. Luoghi dove non si può arrancare con la sportina della massaia neorealista, ma occorre incedere col carrello cromato. Luoghi dove trionfa l’abbuffata, ma bisogna ostentare un affettato e beninformato less is more. Ricercatezza, non ricerca, tra gli scaffali come negli stand. E poi non è forse vero che oggi i grandi cuochi sono star a molti zeri come i loro “colleghi” artisti? E che non s’apre museo senza cafféristorante interno pavesato di Stelle e Forchette e Cappelli? E non sono curiose le analogie tra il forbito pour parler della critica d’arte e la retorica enogastronomica? Pazienza se in tanti, in quei cento passi o suppergiù al Lingotto si sono accontentati di leccare le vetrine, illusori affittuari di un benessere da sniffare, paghi d’aver trovato un altro non luogo (ma quanto più esclusivo e culturale del solito centro commerciale!) in cui trascorrere la giornata, soppesando la merce ben confezionata ed esposta dalle sirene del lusso, col pedigree vantato dall’etichetta (la prosapia della carota come le Biennali e i Turner Prize in curriculum) ma dalla filiera non sempre rintracciabile.
È già tanto se, con questi chiari di luna, qualcuno è tornato a casa con la scatoletta di bottarga. O con la foto cinquanta sessanta su forex, quella che, tutto sommato, poteva essere anche venduta senza le altre del trittico originale.
anita pepe