Fare una scenata

17 giugno 2008

Napoli, Fondazione Morra Greco

Nervi scoperti, che tuttavia non saltano. Una collettiva che induce a ripensare lo stato dell’arte. In una città internazionale per (non) sentito dire. Ma senza fare scenate…

Ci sono mostre che superano se stesse. Mostre che stimolano riflessioni che ne travalicano i contenuti, l’occasione, il progetto. Mostre che ricadono a pioggia in una tempesta di deduzioni. Come Making a scene, quarta nata in casa di Maurizio Morra Greco, tra i pochi player partenopei splendibili in alto loco: membro del comitato consultivo di Artissima, collezionista d’assalto, prestatore da esportazione. Eppure, talvolta le proposte della sua Fondazione rischiano d’esser notate più per la location e il dibattito a bordo campo che per la mostra in sé. Certo, con un palazzo così -la secentesca dimora dei Caracciolo d’Avellino, al Decumano Superiore- e profondendoci del suo Morra Greco, può dire quello che vuole. Mentre farfuglia Jörg Heiser, chiamato a curare una collettiva che astutamente traduce in Fare una scenata il titolo inglese e, pur rincarando la dose con la Sophia nazionale presa a icona dell’advertising, elude lo specific di un site non intimamente sentito, se non attraverso suggestioni di seconda mano, sul quale innestare rielaborazioni di opere non proprio inedite. Il merito di non aver insistito sul cliché della Napoli sbracata e triviale abusato da certo cinema non rafforza un percorso sfilacciato e passivo: i tre collage di Haris Epaminonda (che, poi, nella dark room tripartisce un mélange di b-movies greci); il tedioso remake à la Bergmanin salsa turca spiato dalla coppia Özlem Günyol e Mustafa Kunt; l’installazione sonora di Henrik Håkansson che, col flebile singulto del suo uccello messicano, spreca la magnifica occasione del piano cantinato, spazio bello e possibile solo per combattenti di razza (vedi Gregor Schneider ed Eric Wesley); la Deposizione di Marko Lulic, crasi tra Bill Viola e Marina Abramovic iconograficamente familiare; la Loren di Pierre Bismuth, che continua la serie Following the right hand of seguendo le evoluzioni mimiche della “Ciociara”. Un pensiero debole che, non scoppiando platealmente nell’esternazione, porta a rovistare nella santabarbara degli interrogativi. Primo: Napoli è davvero città internazionale?

Non avevano dubbi i tre “interpreti” messi da Lulic la sera dell’inaugurazione a concionare in english, of course- sul “sistema dell’arte”, dinanzi alla solita cricca di addict locali: Napoli è città internazionale. Capitale cosmopolita e provincia alloglotta, dove l’arte contemporanea è ancora -nonostante i (disertati) musei, nonostante la propaganda propagandata, nonostante i nobili intenti- fenomeno settario, prevalentemente a uso e (scarso) consumo di quell’inerte e “giacobina” borghesia regolarmente fustigata da scrittori ed editorialisti. Una classe che, in nome dell’internazionalità, insieme agli interinali del jet set inspira ed espira profumo di cultura ai vernissage e che, sempre in nome dell’internazionalità, tollera quattordici anni di emergenza rifiuti e secoli di Gomorra senza batter ciglio né muovere un dito. Una Casta Eletta che magari gironzola affascinata per il fatiscente palazzo Caracciolo d’Avellino, ma forse non si domanda attivamente perché il palazzo accanto, e quello accanto ancora, e tutti i palazzi di un centro storico patrimonio dell’umanità versino nelle medesime condizioni di degrado (probabilmente se lo chiedono i visitatori della mostra di Schneider alla Bevilacqua La Masa, vedendo la munnezza filmata nell’exhibition tour girato durante la personale partenopea del 2006, proprio da Morra Greco). Un’intellighenzia finger food che preferisce, alla bisogna, riesumare l’atavico paternalismo nei confronti del popolo, piuttosto che comunicare con una middle class sempre più sconfitta e demotivata. Tutti ugualmente travolti dalla débâcle educativa e partecipativa messa a nudo dalla mostra, che, tra la sera dell’opening e la mattina successiva, programmava ben tre performance. Un disinteresse evidenziato non tanto dagli appuntamenti in sede col già citato Lulic e Christoph Dettmeier (il cui Country Karaoke era niente di più che una simpatica esibizione amatoriale), ma dal tiepido riscontro riservato a Marzarama, azione (“linkata” in Fondazione con un lightbox) in cui Alexandra Myr e Lisa Anne Auerbach giocavano a “integrare” col marzapane le statue della Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti: il coinvolgimento non è andato al di là di qualche rapida affacciata e di qualche occhiata incuriosita, tanto da parte dei docenti quanto dei discenti.

Un fatto che la dice lunga sulla reale diffusione dell’arte contemporanea in città (ammesso che si sia voluto realmente divulgarla). Un segnale da valutare con umiltà e apertura dialettica. Altrimenti i due musei, le metropolitane, i regali di Natale al Plebiscito e le propalate sinergie resteranno una fola per oziosi. E quei fetenti di scrittori ed editorialisti continueranno a dire che la borghesia da queste parti non vuole e non sa fare niente…

anita pepe

mostra visitata il 21 maggio 2008

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