Antje Blumenstein

17 ottobre 2007

Napoli, Changing Role

Like a Virgin. Ortodossa nella tecnica, eretica nei soggetti, Antje Blumenstein scende sul campo di battaglia, tra la morte di Dio e l’idolatria contemporanea. Eroi del mese ed eroine sulla via della conciliazione interreligiosa, sparando a zero su un illustre conterraneo…

Olio su tela. Resta compresa nella tradizione la pittura di Antje Blumenstein (Dresda, 1967; vive a Berlino), sebbene elabori il suo progetto sulla contestazione del dogma, ponendo sul tappeto un paio di quei problemi contemporanei solitamente definiti “scottanti”. Un tappeto tinto con pochi ma decisi pigmenti, e con una mano ricca e abile nel “travestimento” tecnico, arrivando tramite diluizione a effetti tempera o acquerello. Nota dissonante della mostra l’Object number 5 in sottili sfoglie di polistirolo, agli antipodi del linguaggio apertamente figurativo dei quadri, obbedienti all’evidenza cromaticodisegnativa piuttosto che a un improbabile ermetismo concettuale. Gioco di equilibri statici e visivi, l’acrobatica installazione è pura forma, i cui elementi stanno come d’autunno sugli alberi le foglie, senza simboleggiare però la precarietà del vivere odierno. I riferimenti all’attualità sono innescati nei pennelli, che sparano, non a salve, sulla Croce. Rossa, nel corsivo Virgin, antifrasi sottolineata con le lucine usate per gli addobbi di Natale, di cui l’intatta Maria è primadonna, ma color sangue-mestruo-imene lacerato, in buona compagnia d’una galleria di teste muliebri ispirata alle donne delle tre religioni monoteiste. Labbra polpose da top model e sguardo che buca l’obiettivo come navigate popstar, le icone di oggi prestano il volto alle icone di ieri: Ester, Giuditta, Maria, Maddalena.

Pendant maschile, gli eroi per un giorno, idoli ibridi da superclassifica aziendale (avete presente lo stacanovista mensilmente elevato agli altari della bacheca dell’ufficio?), luminosi e avvenenti ritratti scopiazzati dalle pagine dei giornali, nei quali l’artista stempera l’horror vacui espresso nella tela di maggior formato e di maggior impegno dell’esposizione. Dove riprende, a suo modo, un genere largamente diffuso in passato quello della battaglia- ma privo di un corrispettivo nell’arte contemporanea, nonostante il pianeta sia bel belligerante. E The giver of hope and peace, un Cristone tratto dal manifesto pubblicitario di una chiesa dell’Alabama, con le braccia ecumenicamente spalancate su un conflitto a fuoco. Scenario la campagna americana, con tanto di nebbia fucsia prodotta dalla sgommata sull’asfalto, avvitamenti aerei e una seminascosta M di Mc Donald’s, quasi a suggerire che potrebbe essere quello il vero casus belli invece della religio instrumentum regni.

Kitsch a go-go per denunciare l’inasprita ingerenza del Vaticano sulla politica tedesca, spina nel fianco per Blumenstein, connazionale di quel Benedetto XVI che, dalle teorie addirittura “rivoluzionarie” degli anni accademici, è progressivamente approdato a intransigenti reprimende terzomillenaristiche. Eppure Anyone can get into heaven, rassicura la frase all’ingresso scritta con le solite lucine, stavolta in un azzurro consono alle promessa celestiale. Ognuno può andare in Paradiso, ma come? Perché se bisogna andarci da onusto caduto di guerra, quasi quasi è meglio il quarto d’ora di celebrità da impiegato del mese.

anita pepe

mostra visitata il 26 settembre 2008

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