Mea culpa, mea maxima culpa. Ci sono cose che si potrebbero fare prima, molto prima. Se non si continuasse a rinviare nella vana attesa della mezza giornata di sole/libera. Oppure perché ci sono eventi cui si guarda con un po’ di sufficienza: ma sì, sarà la solita operazione blockbuster, dove accorrono in frotta i comuni mortali. Finché arriva l’illuminazione, ci si getta il pregiudizio alle spalle, e ci si ritrova con un biglietto in mano e l’audioguida nelle orecchie. Pop pure quella, con la voce toscanaccia di Bonami che non non si dilunga in descrizioni auliche, e condisce le didascalie con gli aforismi del guru dalla parrucchetta platinata (per inciso, l’argenteo cimelio fu battuto all’asta qualche anno fa per diecimila verdoni). (altro…)
Archivio / Arte Contemporanea
Like gold to airy thinness beat
3 ottobre 2013
“Sì sono acquarelli, su carta satinata e perlopiù di 300 gr…”. 300 grammi. Massaioli la butta subito sul peso. La consistenza, la gravità che ti trascina verso la terra. Eppure sono leggere come veli di sposa queste sue opere, dove i personaggi volteggiano nel bianco come piante acquatiche nei paesaggi sonori di Debussy.
E la bilancia – il peso, la misura del peso – oscilla: carico d’oro è uno dei piatti, ma il prezzo del riscatto è truccato, ché qui i conquistatori son due. E ogni volta, maliziosi, si espongono da un’angolatura diversa mentre il segno impennato del sesso, pur netto, si perde nella grazia d’amore. Amore che era lì, sull’altro piatto, ed è appena volato dappertutto. Il vuoto, libero, librato, canta intorno all’abbraccio, ardente e pudico. (altro…)
Sw…hiss
17 settembre 2013
Chi di voi, guardando la foto in alto, non direbbe che questo è un motorino? Eppure è un’opera d’arte. Al limite, ma proprio al limite, vanno bene tutt’e due: motorino e opera d’arte. L’importante è che prendiate coscienza della seconda.
Insomma, l’intorto del ready made è vivo e lotta insieme a noi, solo che tra la ruota di bicicletta e quella del ciclomotore qualche decennio è passato e ce ne siamo accorti. Garage di lusso il Padiglione Svizzera, che meritoriamente fa elaborare allo spettatore lo choc della scorsa Biennale, quando Hirschhorn non fece cadere uno spillo a terra (e comunque ci piacque tanto). Quest’anno Valentin Carron rigenera la purezza degli spazi e invita a seguirlo passo passo con un indovinato trucco da fachiro: il sinuoso serpente di ferro che, a mo’ di tributo, dipana le sue volute in tutto lo spazio progettato da Bruno Giacometti (fratello del “dottor sottile” Alberto), dove aria e luce esaltano i pannelli in vetroresina e gli strumenti musicali spiaccicati, cicli dettati rispettivamente da intenti di riproduzione e distruzione “performativa”. E se il rettile metallico non si morde la coda (inesistente, perché, se lo seguite fino in fondo, vedrete l’altra testolina gettarsi oltre il muro di casa Elvezia), è l’artista ad andare in cortocircuito sul finale, dove appunto fa bella mostra di sé il “Ciao n° 6” “delicatamente restaurato” che, ormai sepolta l’automobile futurista, tenta di salvare dallo scasso un’altra Nike con la marmitta. (altro…)