Jeff Wall_Vancouver, 7 Dec. 2009. Ivan Sayers, costume historian, lectures at the University Women’s Club. Virginia_ 2009_ fotografia a colori_ 224.3 x 182.5 cm. Courtesy dell’artista e della Galleria Lorcan O’Neill Roma
Prendiamo un’altra immagine. Diversa da quella – certo più dirompente – promossa sulla copertina del catalogo e rilanciata in primo piano su carta e in Rete. Come perno di una lettura della mostra di Jeff Wall, partiamo invece da Vancouver, 7 dec. 2009, protagonisti lo storico del Costume Ivan Sayers e Virginia Newton-Moss, mannequin in abito d’epoca. Perché questa foto? Prima di tutto perché, banalmente, è stata scattata nella città natale del fotografo. Poi perché potrebbe costituire un manifesto della sua poetica. In senso letterale, delle sue linee guida: la diagonale. Costante geometrica in quasi tutti i lavori esposti al PAC, tagliati su una prospettiva angolare che ne approfondisce l’intenzione immersiva, perfino in opere dal soggetto apparentemente insignificante, o forse ironico e orientato ad una traslazione di significato: la vaschetta/barchetta d’alluminio con un residuo di Peas & sauce è fragile metafora della deriva urbana? (altro…)
Nunzio Paci_ Equino In Fiore_ 2013_ Matita, olio, smalto, resine e spine su tela_ 60 x 90 cm. Courtesy Officine dell’Immagine
Pensate a un libro antico. E immaginate di aprirlo, a caso. Qual è il primo colore che vi viene in mente? Giallo. Beige. Tinte organiche, in un campo di bianco caldo: questa la descrizione che Nunzio Paci sceglie per decifrare la signatura rerum, dottrina rinascimentale tesa ad individuare analogie tra molteplici e diversi aspetti del Cosmo. Figure che sgorgano, si incrociano, saldano e, letteralmente, si diramano. Sovrapposizioni e innesti fisiologici come manifestazioni dell’unica “bella d’erbe famiglia e d’animali”, in cui arrivi e partenze si dissolvono reciprocamente, ad accompagnare la naturalezza dell’ibrido, fermandosi un attimo prima dell’invenzione araldica: nell’opus continuum, il tratto ricerca armonia e costruzione, e la lacrima della colatura smussa la forza spigolosa di ossa, rami stecchiti, fasce muscolari. In filigrana, il ricordo dei disegni leonardeschi. (altro…)
Marco Porta_ Dare nomi alle cose_ 2013. Sterco, registrazione sonora. ph Daniele Podda. Courtesy l’artista
Improbabile, ma non impossibile. Al di là dei tumulti della Storia, è il caso a governare la vita dei mortali. Il colpo di testa. L’imprevisto, talvolta bizzarro. Questa la filosofia che lega i lavori di Marco Porta, in un percorso composito cui fa da sottotesto una certa indolenza bucolica, una dolcezza da favola pastorale che, quando sta volgendo all’occaso malinconico, scarta di lato con ironia. Sarà per l’introitus, accompagnato dai campanacci che risuonano per l’elegante scalone, facendo subito détournement; sarà per il confronto con il contenitore, il settecentesco Palazzo Natta-Vitta, dal quale l’artista riesce a non farsi “divorare”. Banco di prova il bellissimo salone, dove tre “oggetti” definiscono altrettante possibili chiavi della mostra: natura, oscillazione (fisica e metaforica), artificio. Poliedri come cespugli costruiti di rose variamente addensate e caduche, tra geometria quattrocentesca e vanitas barocca. Un nodo di mani pende dal soffitto, spigato di rami e, chissà perché, pur in un ambiente così mondano ed incongruo viene in mente una variante potenziata dello stemma francescano. Earth art: forza primigenia, nel fuoco che fonde il bronzo e soprattutto nei “prelievi” diretti dalla terra. Sassolini di sterco, organizzati in forma di cornici: che lungo i sentieri agresti si trovino sistemati così razionalmente è difficile, ma… si può escludere del tutto?
Analogamente, gli insiemi aleatori si raggruppano nelle grandi tele dove, sulla preparazione bianca che lascia a nudo il cammino del pennello, un creatore stravagante ha sparso manciate di minuscole mosche, “accerchiate” come una coltura in vitro o disposte in organizzato corteo. Le avete mai viste così? Eppure, potrebbe accadere. Remote, misteriose epifanie. Per incidente statistico, scherzo di natura.
Più narrativa la tranche della mostra accessibile dal cortile, nella quale meglio si avverte l’energia del flusso, esplicitato dalla presenza dell’acqua. La grande vasca rotonda potrebbe evocare, esteticamente, alcune installazioni di Mona Hatoum e di Anish Kapoor, dove la circolarità regolare e perfetta asseconda la monotonia del sempre. Il dito bronzeo di Porta, invece, ruotando traccia, sul pelo della superficie liquida, figure deviate in spirali. Movimentare lo stagno del tempo è dunque una fatica di Sisifo? I “corsi e ricorsi” sono il disegno a mano libera di un motore immobile, ma illogico? Un soffio di lepida anarchia che dura l’attimo di una contraddizione: il rivo, irreggimentato in vasche, prelude al trionfo mimetico del tronco, dondolante nell’abside del punto di fuga. Più vero del vero, ma solo all’apparenza. Aere perennius, ma altalenante.
Marco Porta_ Abito il sogno che mi abita_ Casale Monferrato, Palazzo Natta-Vitta. A cura di Luigi Cerutti
(3 marzo – 5 maggio 2013)
Al museo del Suor Orsola Benincasa “Questo è il mio corpo”. Offerto in sacrificio per l’arte. Potrebbe completarsi così, con una parafrasi cristologica, il titolo della mostra che Christian Leperino ha sviluppato nell’ambito
“L’arte non è Marte”, recitava il titolo di un programma televisivo. A Cava de’ Tirreni, però, non la pensano così, visto che il centro metelliano che porta il nome del pianeta rosso per la
Il libretto delle istruzioni per le mostre contiene diverse voci. Una, per esempio, dice di trincerarsi dietro la nostalgia del grande evento di tot anni prima, invariabilmente più bello e più “scientifico”. Un’altra consiglia