Archivio / Arte Contemporanea

Ricucire il futuro. Giovanni Gaggia a Tellaro.

10 luglio 2018

“Ho bisogno del mare perché m’insegna”: così scriveva Pablo Neruda. Ma qui non siamo a Isla Negra, bensì a Tellaro di Lerici. A ulteriore levante di un Golfo, quello di La Spezia, che coi poeti in ogni caso c’entra, e parecchio.
A volte però la lezione, anziché sapore di sale, lascia l’amaro in bocca: questo è quanto Giovanni Gaggia, chiamato da Gino D’Ugo per il terzo appuntamento del ciclo espositivo “La superficie accidentata”, ha appreso e – divulgato – dalla viva voce del pescatore Gino.
Che questo sia un lavoro a quattro mani è al contempo vero e falso. Falso, perché le mani sono di più, comprese quelle di Andrea Luporini, che ha fornito il supporto tecnico indispensabile alla documentazione di un progetto interamente realizzato in loco. Vero, anzi letterale, perché “Tutto l’inizio, la fine” ruota intorno ai gesti e ai dialoghi che due persone, diverse tra loro per età, professione ed esperienze culturali, intrecciano mentre sono intente a riparare una rete da pesca. Un mestiere antico, che come tutte le attività artigianali occorreva “rubare” osservando i più esperti; e un’attività senza barriere di genere: maschi e femmine, purché dotati di destrezza e pazienza, rattoppavano indistintamente quelle trame sottili che sarebbero a setacciare i flutti per ricavarne pane. Aggiustavano, non buttavano via: roba da poveri o, più semplicemente, regola naturale di una società non ancora fondata sullo spreco.
Intorno all’acqua-arché ci sarebbe molto da dire, ma Gaggia ha preferito limitare la sua evocazione di un mondo operoso e antico alla suggestione di pochissimi input: un video, una traccia sonora, un’installazione. (altro…)

Frida Kahlo. Il corpo pulsante di un’icona

2 giugno 2018

Frida Kahlo_ La colonna spezzata_ 1944_ olio su tela_ 39.8 x 30.5 cm_ Museo Dolores Olmedo. © Foto Erik Meza / Xavier Otaola – © Archivo Museo Dolores Olmedo
© Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México, D.F. by SIAE 2018

Ultimi giorni col botto per Frida Kahlo. Un fuoco di fila di proposte (la “fiesta” proseguirà fino a domenica con aperitivi, presentazioni di libri, laboratori per grandi e piccini, performance teatrali) e prevedibili code saluteranno al Mudec un’esposizione della quale non c’era bisogno, e che già prima di aprire stava antipatica. Pregiudizio abilmente sfruttato da una comunicazione assidua e autoironica, che – con lo stesso curatore Diego Sileo in prima fila – ha saputo lavorare provocatoriamente sulle critiche che da più parti si sarebbero levate contro quest’altra mostra su Frida Kahlo. Anzi, su Frida, come spesso l’artista viene chiamata da chi pare tralasciarne il mestiere di pittrice per ridurla a icona fashion, pasionaria femminista, tragressiva bandiera della liberazione sessuale, Madonna Addolorata col sopracciglio unito, i baffetti, i gioielli vistosi e i fiori nei capelli. Non che non lo sia stata, beninteso, e infatti proprio su questa confidenza un po’ urticante, con annessi stereotipi romanzati, il progetto gioca senza truccare le carte. Sicché, via libera nel bookshop a gadget d’ogni forma, colore e utilizzo, ma per andare “oltre il mito” ci è impegnati anche con iniziative collaterali “serie”, come conferenze, pubblicazioni, proiezioni, un incontro con le detenute di San Vittore e, vista la natura del luogo ospitante, un focus ad hoc sull’archeologia messicana, “Il sogno degli antenati”. Del resto, aver inserito nel titolo l’usurata parola è stato un piccolo atto di coraggio… ma perché negare che alla costruzione del mito provvide con grande accortezza la stessa Frida?
Forse sono proprio questi i motivi per cui quest’altra mostra su Frida, l’operazione commerciale della quale non c’era bisogno – specie a due anni da quella approdata a Genova da Roma, in cui però il palcoscenico era diviso con l’ingombrante Diego –, è riuscita a tenere la testa alta (sui numeri si ragionerà a botteghino chiuso), anche per l’accessibilità di una lettura costantemente concentrata sul corpo della protagonista. Il che, ovviamente, lungi dall’essere una novità dirompente è un approccio quasi obbligatorio per un personaggio che del suo disgraziatissimo involucro aveva fatto oggetto d’arte e veicolo di protesta (tra parentesi, l’evento del Mudec ha avuto una “sorellina minore” nella tosta personale di Teresa Margolles al Pac, firmata sempre da Sileo).
Un corpo sacrificale e politico, feticcio e manifesto, spettacolarizato dalle molte foto, eviscerato o trionfante in numerosi dipinti, offerto per immagini e parole ad una venerazione che specialmente al giorno d’oggi sfiora il voyeurismo. E anche se, di fronte alla Frida spezzata dagli aborti, piegata dai tradimenti di Diego e dal calvario degli interventi chirurgici, molti spettatori possono cedere a sentimenti per così dire “empatici”, resta il fatto che, alla fine, il famigerato corrimano del bus loro non l’hanno inghiottito al posto della spina dorsale, non ci si sono infilzati sopra. Questo la mostra ce lo ricorda chiaro e tondo, sbattendoci di fronte alla difficoltà di capire, fisicamente, l’insofferenza e la frustrazione di una pittrice che non riusciva a tenere il pennello in mano, che lavorava inchiodata ad un letto, strafatta di analgesici e di morfina. Una che gridava Viva la vida, ma probabilmente ha deciso di lasciare questo mondo anzitempo con un’overdose di Demoral.
Ed è nell’epilogo che, dopo avergli dato in pasto tutto ciò che si aspettava, l’esposizione fa lo sgambetto al visitatore e segna il punto-partita: le strazianti foto di Graciela Iturbide, che raccontano il bagno di Frida Kahlo, in quella Casa Azul dal nome così poetico, che sa di patio abbacinato dal sole e inondato di profumi inebrianti. Una violenza non tanto al lato più intimo e doloroso della pittrice, ma verso le romanticherie di chi pur ne aveva compianto il destino; e che all’improvviso si trova catapultato in uno squallido ambiente dove si ammucchiano busti, grucce, protesi, perfino un ritratto di Stalin. Improvvisamente la morte smette di essere un variopinto carnevale latinoamericano, con cuori trafitti e teschi colorati, e all’apparir del vero si palesa per quello che è. Tra le piastrelle gelate di quella dismessa stanza delle torture, la lapide è definitiva, spietata: “la fredda morte ed una tomba ignuda”. Questione chiusa. E dopo, signori cari, non c’è davvero più niente.

Articolo pubblicato su Artslife, 31 maggio 2018

30 maggio 2018


Corto circuito. Tutte le visioni di Tamara Repetto esplodono nei Tableaux parfumés. Senza dubbio, le più emblematiche tra le sue opere: non solo perché ne attraversano la ricerca da oltre dieci anni, ma perché incarnano gli aspetti fondamentali della sua cifra stilistica e della sua pratica artistica. L’eleganza, innanzitutto. Data da una disposizione a mosaico, architettonicamente tendente all’ordine e alla pulizia. Una volontà estetica che traduce un bisogno intimo, sottolineato dalla scelta dei materiali: saponette d’albergo di piccolo formato, limpido riferimento alla purezza e, in maniera appena più sottile, al transito e all’impermanenza. Correlativi di un nomadismo interiore e fisico che vanno a comporre e percorrere lavori in cui, come da luminosi pavimenti di antichi portici, spuntano humus, aghi di pino, rami, piume, polvere di legno. È soprattutto tra gli alberi dei suoi due mondi (il Lussemburgo o quel basso Piemonte che è già Liguria, zona ibrida anche quella) che Repetto va ad incontrare le cose con cui apparecchia le nozze tra memorie dal sottobosco che, lanciate incollate montate infilate sul bianco assoluto, anziché sporcarlo ne esaltano la purezza.
E in agguato c’è un altro cortocircuito: perché, mentre invita ad un contatto profondo con la natura, allo stesso tempo l’artista ne sottrae l’esperienza sensoriale (e sensuale). Le saponette sono state infatti “disinnescate” da una vernice trasparente che ne ha bloccato la traccia olfattiva. Inciampo imprevisto, per lo spettatore pronto ad un esito scontato; idea brutale e polemica nascosta sotto una forma squisita, delicatissima.
I Tableaux si pongono dunque come critica alla società anosmica e de-odorata, che preferisce mettere filtri e stordirsi con profumi sintetici pur di tenersi lontana dall’“altra” essenza: quella autentica, e piena, di una realtà intrisa d’amore e di malattia, di dolore e di bellezza. Quella che Repetto non rifiuta, ma affronta con un lavoro lento e meditativo, ricercando in primo luogo il silenzio dentro di sé. Una routine performativa ascetica e solitaria, necessaria non per far vuoto emotivo, ma per dosare e trasferire energie: un continuo sentire e ascoltarsi, vibrando ipnoticamente intorno alla superficie dei piccoli saponi. Che l’artista ritaglia, leviga o scalpella in onde carezzevoli; dove scava minuziosamente – ed emblematicamente – piccoli tarli usando un oggetto “sentimentale” come il vecchio trapano a mano di suo nonno.
È questo il momento in cui, seguendo una corda tesa fra viscere e mente, l’armonia compositiva può deragliare verso un opus incertum, e il quadro d’insieme prendere con un ritmo diverso, convulso o intermittente. È questo il momento in cui, in ossequio alla filosofia wabisabi, il residuo si fa poesia, e la sottrazione crea atemporalità e sospensione. Accettando il rischio di rompere qualcosa di fragile.

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