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La fotografrice degli apri

25 novembre 2013

Eran trecento, più cinquanta devolti, e son molti!

Me ne stavo al piccì a navigare
quando ho visto un’email da vagliare:
mi si parava una grande occasione
purché versassi un bel guiderdone.
Vuoi fare una mostra, il prossimo anno?
Grandi successi ne giungeranno;
ne giungeranno a frotte, a bizzeffe
è cosa seria, e non sono beffe.

Eran trecento, pronto cash come accordi, e son soldi!

È cosa seria, e non sono beffe,
per voi patiti dell’arte con l’Effe.
Chi per diletto, chi per mestiere
quanti di voi hanno foto in cantiere?
Ad una ad una le condizioni:
innanzitutto non v’han produzioni;
poi torna cento a fondo perduto
se non gradiamo il tuo contenuto.

Eran trecento, non vengono estorti, tua sponte disserra le casseforti!

Con l’occhio a spillo e il capello a vapore
se ne vantava il buon curatore.
Lui sol patrono, lui solo il divo
della rassegna dell’obiettivo.
Mi feci ardita e, pronta al dialogo,
gli chiesi tariffa per il catalogo.
Guardommi, e mi rispose – O mia sorella,
Vatti a morir, per la porca padella!

Eran trecento, vogliamo proporti, pur se in bonifico tu ce li porti!

Chi paga sviluppo, gancio, trasporto?
Ma ci pensi tu, col collo obtorto!
E poiché tutti famiglia si campa
ti diciam noi ove fare la stampa.
Ci van le cornici col passe-partout
e se butta bene vai pure in tivvù!
In analogico e in digitale
s’incarca l’artista del materiale.

Eran trecento e, se ci supporti, certe saranno tue vaghe sorti!

Eran trecento, e non c’erano sconti,
creativi scattanti versate gli acconti:
è solamente per un contributo,
poi l’inclita musa correrà in vostro aiuto.
Ma quando verremo della Mostra ai muri
ho tema che i tempi si faran duri,
ché in pochi centimetri a fare scintille
ci pigeremo in metà di mille.

Eran trecento, in assegni o contanti, signori ambiziosi fatevi avanti!

Vedrete saran giudici insindacabili
dei vincitori bilance implacabili;
io speranzosa di entrare nel novero
riceverò la manina sull’omero.
Oh me tapina, che delusione!
Mi butterò giusto sotto il balcone!
Oppure impipandomi del solito noto
continuerò con piacere a far foto.

Eran trecento, forse non molti, ma se glieli date… poveri stolti

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Jammuncenne pe’ bbascio

17 novembre 2013
Allora & Calzadilla_ Petrified Petrol Pump_ 2012_ pietra_ 457 x 231 x 120 cm © Allora & Calzadilla. Courtesy Allora & Calzadilla e Lisson Gallery, London, Milano. Allestimento a Palazzo Cusani, Milano, 2013. Ph Marco De Scalzi

Allora & Calzadilla_ Petrified Petrol Pump_ 2012_ pietra_ 457 x 231 x 120 cm © Allora & Calzadilla. Courtesy Allora & Calzadilla e Lisson Gallery, London, Milano. Allestimento a Palazzo Cusani, Milano, 2013. Ph Marco De Scalzi

L’annuncio era preludio alla gita, promessa d’avventura.
Senza l’anonimato dell’autostrada, la monotonia delle uscite.
Jammuncenne pe’ bbascio era l’escursione in città e quartieri che sfilavano uno dietro l’altro, coi cartelli corrosi dalla ruggine a confondere confini inesistenti e indecisi.
Jammuncenne pe’ bbascio voleva dire scivolare per un tratto nella provinciale punteggiata di luci malinconiche, che t’aggredivano come lo spleen di Capodanno, aria bruciata dai botti e stomaco inacidito.

Per chi nasce dalle mie parti è difficile immaginare città staccate, isolate, circondate dal nulla o da campagne a perdita d’occhio, zone industriali, dolci colline, pianure coltivate a riso e pioppi. Chi nasce dalle mie parti vede il Vesuvio, e quella è la natura. Ma se te ne vai pe’ bbascio il Vesuvio lo aggiri. Come al solito. Perché poi, pure se ci campi sotto, il Vesuvio pare che non esiste finché non lo vedi casello casello. O dal finestrino del treno. O dell’aereo.

Tu viaggi, ti muovi, fuggi, e lui sta sempre là. Ti aspetta. Aspetta. (altro…)

Pavor nocturnus

6 novembre 2013

Tintoretto_Santa Maria Egiziaca_Venezia, Scuola Grande di San Rocco

La sera, tornando a casa, guido lentamente. Prima, seconda, terza. Seconda, terza, seconda. Rotonde, luci arancioni. Una mano sul volante, l’altra dimenticata. Cercando di raschiare dai polmoni le parole intrappolate.
Le parole che mi hanno tradito anche stasera. Che mi consegneranno domani all’Inquisizione degli sguardi, alla gogna dei sussurri.
Dal diaframma, l’ingorgo mi intoppa fino alla testa. È lì dentro che accade tutto di me. Sono solo questo, ultimamente. Spazio compresso, occupato al millimetro. In lotta per non soccombere alla paralisi.
La rotonda dopo il ponte. L’abitudine mi fa prendere a sinistra.
Maledizione. No.
Perché anche stanotte la vedo. La vedo di nuovo, esattamente dove l’ho vista la settimana scorsa.
Rattrappita nella mia quattroruote, costeggio l’argine del fiume e la vedo. Nel buio mi appare splendente, spaventosa: io in bici. Testa alta, gambe che mulinano. Come nelle mattine di nebbia e di sole scampato, quando aspetto di arrivare davanti a quella schietta seminata di pioppi. La mia piccola Russia, e me stessa un’eroina di Tolstoj, nel boschetto di betulle.
Ma la notte, dopo la curva, dopo che hai dato la precedenza a qualcuno e scavalcato il dossetto zebrato, c’è solo il buio. E nelle tenebre io pedala. Un doppelgänger raggiante come una santa di Tintoretto. Sbuca fosforescente dal nulla, scivolando nel buio come una medusa elettrica.
E non mi guarda.
Io tira dritto e, mentre sono ormai al sicuro, so che si perderà nelle tenebre dell’argine umido. (altro…)

longton galkin-sebastian@mailxu.com