“Magister” Raffaello. A Bergamo

5 maggio 2018

Raffaello_ San Michele e il drago_ 1505 c._ Musée du Louvre, Parigi.
credits : Paris, Musée du Louvre, Département des Peintures

Ci sono mostre che valgono la visita per quel pugno di capolavori autentici, pochi ma buoni, e non passati di grado per orchestrazione promozionale. Mostre che alla fine risultano godibili in quanto, né quantitativamente massicce né qualitativamente omogenee, offrono una prospettiva interessante e didascalica su un fenomeno. Vale dunque la pena di approfittare delle ultime ore di “Raffaello e l’eco del mito”, tanto più che l’evento alla Gamec propone il tandem con l’Accademia Carrara.
Si fa appena in tempo a salire la prima rampa di scale, che dell’Urbinate si sente, appunto, già l’onda di propagazione. È negli artisti contemporanei che l’hanno omaggiato, citato, manipolato: i d’après di Vezzoli e Ontani, gli impacchettamenti di Christo, la raffinata installazione di Paolini, l’avvolgente rosa e oro di Spalletti, le eteree statue viventi di Vanessa Beecroft… Nomi d’oggi che riveriscono un colosso della pittura, gigante, a quanto pare, fin da piccolo: il percorso parte, molto sinteticamente, dal retroterra costituito da suo padre Giovanni Santi e da Perugino, Pintoricchio, Signorelli. È nelle fertili Marche dei Montefeltro – qui rappresentate da Federico, immortalato da Pedro Berruguete, e da sua nuora Elisabetta Gonzaga, effigiata da Raffaello col sontuoso corpetto ad intarsi geometrici – che si forma e cresce un genio eccezionalmente precoce, il quale già a diciassette anni poteva fregiarsi dell’appellativo di “magister” e intorno ai venti firmava il San Sebastiano della Carrara.
Ed è intorno al “padrone di casa” – giunto nel 1836 in terra orobica, mercé il collezionista Guglielmo Lochis – che pulsa il cuore dell’esposizione: alla corte dell’efebico martire brillano opere tutt’altro che in soggezione, dal San Sebastiano di Perugino (col particolare, alquanto lezioso, della firma-freccia che va a conficcarsi nel collo), alla Maddalena del medesimo, mentre il siculo Pietro de Saliba e lo straordinario Memling danno ragione delle influenze fiamminghe. In una parola: eccovi serviti i capolavori.
Dopo questa vetta, l’itinerario sembrerebbe perdere di tono. Invece arriva la parte per così dire divertente, che si riallaccia all’“eco del mito” enunciato nel titolo e parzialmente già sviluppato nel prologo contemporaneo. Si tratta della celebrazione ottocentesca dell’“amoroso” Raffaello, irretito dagli occhi neri come tizzoni della bella Fornarina, senza la quale non riusciva a tenere un pennello in mano. Parte dunque la carrellata dei quadri di storia, e dalle pagine di questo romanzo sentimentale, e sensuale, emerge non solo il prezioso documento relativo alla fortuna toccata ad una figura già ammantata in vita da un alone leggendario (e cristologico), ma soprattutto quanto l’accostamento con l’originale sia impietoso: basti confrontare il sorriso della vera Margherita Luti (o chi per lei) con lo sguardo lascivo della ragazzona denudata nel dipinto di Cesare Mussini. Un’“eredità d’affetti” forse sincera, quella di Raffaello, ma decisamente scomoda da gestire. Scherza coi fanti, ma lascia stare… Santi.

Articolo pubblicato su Artslife, 2 maggio 2018

Se la Bellezza è solo un’eco

16 febbraio 2018

Giulio Paolini_ L’Ermafrodito_ 2017

“Ma che cos’è, cosa sarà mai quell’immagine miracolosa capace di manifestarsi pur rimanendo segreta e di abbagliare lo sguardo innocente e indifeso dell’osservatore? Del resto, noi che guardiamo altro non vorremmo vedere se non quella luce, a rischio di perdere la vista. Che altro c’è da scoprire, ammirare che non sia al di là della frontiera dell’Arte? Tutto ciò che tutti i giorni vediamo, leggiamo o ascoltiamo è una barriera sorda e opaca che non lascia trasparire il “non detto”, ovvero la parola dell’Arte. Parola che siamo noi a formulare senza però riuscire a pronunciarla. Parola impronunciabile perché non ci spetta, non appartiene alla nostra facoltà di dire; così come non siamo in grado di affermare qualcosa che ci supera e ci trascende senza rimedio”. È così, con questa sorta di afasia “paradisiaca”, che Giulio Paolini accompagnava lo scorso dicembre l’opera ideata per il progetto “Carta Bianca” al Museo di Capodimonte. Due mesi dopo quell’inaugurazione, l’artista torna a Napoli – opening stasera alle 19 – per una personale da Alfonso Artiaco: la quarta, per l’esattezza. Sei nuovi lavori, accompagnati da una serie di studi inediti, uno per ciascuna stanza della galleria di Piazzetta Nilo, riuniti sotto il titolo “Rinascita di Venere”. Venus vulgaris o Venus coelestis? Potrebbe essere una delle domande da rivolgere all’artista, colto amante del neoplatonismo. La traccia di una risposta sembra insita nelle iconografie, mutate dalla mitologia greca, dalla letteratura medievale o dall’iconografia cristiana, riproposte in una chiave simbolica consentanea alla raffinata trama estetico-filosofica che Paolini sviluppa fin dagli inizi della sua lunga e fortunata carriera.
Lohengrin, il “cavaliere del cigno”, non solo riporta alla memoria gli allestimenti wagneriani ideati anni fa per il Teatro San Carlo (“Die Walküre” e “Parsifal”), ma è emblematico di una concezione dell’opera che, “per essere autentica, deve dimenticare il suo autore. Apparire priva di generalità, essere senza fissa dimora, appartenere all’ignoto terreno, o meglio alla sconosciuta e impraticabile dimensione del vuoto percorso dagli echi, dalla prospettiva e dalla memoria”. Specchio dell’artista e metafora del suo ruolo, San Sebastiano sostituisce la matita alla freccia, alludendo così al “martirio” imposto ripetutamente dallo sforzo di stabilire un contatto estatico con una dimensione assoluta, quella in cui alberga la Bellezza. Sintesi alchemica perfetta – e perciò irreale- l’Ermafrodito rappresenta la (ambigua ma autosufficiente) distanza dell’arte come categoria avulsa da ogni coinvolgimento con il mondo. Ancora al tema del doppio, ma sfalsato e impreciso, si riallacciano i quattro collage per “Narciso” (2016-17), dove il mito narrato da Ovidio, per fare un’altra citazione “intertestuale”, fa pensare alle celebri tele “voltate” contro la parete, che diventano così soggetto geminato nello sguardo dello spettatore, altro elemento cardine del discorso di Paolini.
Filo conduttore della mostra, la tensione spirituale verso la Bellezza appare protesa verso un’Idea che è possibile cogliere solo di riflesso, in pura trasparenza (come nell’opera che dà il titolo all’esposizione). Ciascuna delle sei proposte “incarnerebbe” dunque questo desiderio, purché il verbo “incarnare” non risponda ad una lettura univoca: la dimensione della corporeità, infatti, pur curata come paradigma estetico, viene tuttavia aggirata per trascendere il limite dei sensi, facendosi portavoce di un Assoluto cui possono assimilarsi solo le geometrie – rettangoli, diagonali – , come principio divino ordinatore. “Ciò che resta è l’eco della bellezza: la Bellezza, qui con l’iniziale maiuscola perché riconoscibile, personificata. – spiega Paolini – Sei ospiti ci accolgono nelle sei stanze dell’esposizione: visite brevi, pur senza trascurare di cogliere l’occasione di avvistare figure tanto illustri quanto incorporee. La loro inerenza ai fatti della vita è ormai remota o addirittura inesistente. Ma è proprio questa – vorrei dire – la ragione della loro eternità”.

(Articolo pubblicato sul Roma, 15 febbraio 2018)

Un po’ di Campania ad Artefiera

3 febbraio 2018

Alberto Di Fabio nello stand di Umberto Di Marino

Tre giorni di appuntamenti a Bologna – da oggi a domenica – per la 42ma edizione di Arte Fiera diretta da Angela Vettese. Una kermesse che però, tra le quasi 150 gallere presenti, parlerà poco campano. Prima di citare chi c’è, infatti, si fa prima a citare chi non c’è. Tra quelli che si notano di più se non vanno, spiccano Alfonso Artiaco e Lia Rumma. Il primo, notevole alla scorsa Artissima, a Torino, per lo stand d’artista ideato da Liam Gillick, preferisce da tempo saltare il primo appuntamento del calendario fieristico nazionale e risparmiare le proprie energie fino all’inizio della primavera, quando sarà ad Art Basel in Hong Kong; nel frattempo, congederà – sabato 3 – “The beard pictures” dei venerati Gilbert & George. Salterà il turno anche Lia Rumma, ormai sempre più milanese (ma di recente, in via Vannella Caetani, è stata apprezzata la personale di Gian Maria Tosatti, “Damasa”). Chi è invece intenzionato a prendersi tutto lo spazio che merita tra gli stand felsinei è Umberto Di Marino, il quale da tempo ha “arrotondato” i propri interessi latinoamericani e portoghesi senza però trascurare gli italiani su cui investe da tempo: nella folta pattuglia arrivano in Main Section Jota Castro, Santiago Cucullu (attualmente nella galleria di via Alabardieri con “The new old days”), Alberto Di Fabio, Luca Francesconi, Francesca Grilli, Satoshi Hirose, Francesco Jodice, Ana Manso, Pedro Neves Marques, Marco Raparelli, André Romao, Eugenio Tibaldi, Vedovamazzei, Sergio Vega e il compianto Vettor Pisani; nella sezione “Modernity”, a latere, il venezuelano Eugenio Espinoza, artefice lo scorso autunno della performance “Walk in progress” nella chiesa di San Giuseppe delle Scalze, restituirà il suo sguardo storico sul Modernismo. Nomi storici e molta fotografia nello stand di Laura Trisorio, membro, tra l’altro, del comitato di selezione: Alfredo Maiorino, Carlo Alfano (omaggiato, fino al 22 aprile, da una retrospettiva al Mart di Rovereto), Fabrizio Corneli, Francesco Arena, Jan Fabre, Luciano Romano, Raffaela Mariniello, Rebecca Horn, Robert Polidori, Stefano Cerio e Umberto Manzo. Ma se Napoli resta, per così dire, sulle sue, senza timidezze avanzano Caserta e Salerno. Da quest’ultima arriva il volto noto di Paola Verrengia, con una prevalenza di pittura e scultura: Martin y Sicilia, Kaori Miyayama, Pino Pinelli, Michele Chiossi, Luigi Mainolfi, Amparo Sard, Filippo Centenari, Emanuela Fiorelli, Maria Elisabetta Novello. Particolarmente attivo negli ultimi anni, anche con progetti ospitati nella Reggia vanvitelliana, dalla Terra di Lavoro arriva tra le brume padane Nicola Pedana con una precisa e promettente scelta di campo: pittura, pittura e ancora pittura, senza limiti di età. Paolo Bini, Marco Gastini, Matteo Montani, Pino Pinelli, Tino Stefanoni e Marco Tirelli; unica eccezione, la scultura di Vittorio Messina, per uno spazio tutto sommato “giovane” e che ha ancora molta, molta voglia di crescere.

(Articolo pubblicato sul Roma, 2 febbraio 2018)

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