Scritto col sangue, firmato Luongo

19 gennaio 2007

Il quarantenne napoletano esordisce da Alfonso Artiaco

Perdere peso con i fumetti. Non è l’ultima trovata di qualche bislacco nutrizionista, ma la metaforica ambizione del napoletano Raffaele Luongo, che a quarant’anni esordisce da Alfonso Artiaco con una personale molto personale – visibile fino al 3 febbraio -, intelligentemente avulsa da ammiccamenti localistici e alimentata da una fluida e aggraziata vena autobiografica, ispirata dalle fiabe di Gianni Rodari e soprattutto dalle storie disneyane, col loro segno rotondo e l’aspirazione ad una vita semplificata. Vita che, nel caso specifico dell’artista, ha origini paesane, rivendicate tramite l’installazione di secchi in cartoncino – di quelli adoperati per la mungitura del latte o lo scannamento del maiale – in cui raccogliere, o meglio distillare, i ricordi d’infanzia, zigzagando tra le piccole cose domestiche, comprese quelle, per dirla alla Gozzano, “di pessimo gusto” (vedi il quadretto di genere appeso nel tinello); oppure tuffandosi nel passato grazie al dissacrante “Idromuseo di arte contemporanea”, vasca da bagno colma d’acqua, “piastrellata” di prove acerbe private e capolavori dei maestri del Novecento, conosciuti in quello stesso spazio ai tempi di Lucio Amelio. Una gincana attraverso autentici “precipitati” mnemonici e fisici, poiché ogni pagina di questo delicatissimo diario minimo, sistematicamente titolata col nome dell’autore, è scritta col sangue. Così l’onnipresente Raffaele, che leggero non è, tende ad alleggerirsi “svuotandosi” espressivamente e concretamente, prolungando il legame intimo con opere che, custodite gelosamente dopo l’esecuzione, rimarrebbero inerti se lo sguardo dello spettatore non le consegnasse a nuova esistenza, vinta l’indole schiva e pudica del loro creatore. Il quale pare giochi a nascondino, lasciando intravedere un disegno sotto il risvolto del lenzuolo, mentre la sega a nastro scandisce la visione di un “Autoritratto senza residui”: un assordante, bianchissimo lettino da ospedale infantile, che cita il barocco con le sue riflessioni sulla vanitas e si qualifica come “caput mortuum”, termine col quale il vocabolario alchimistico designava le scorie. Un processo concettuale che, a dispetto della tecnica impiegata, aborrisce scenari cruenti o macabri: depurato da sovrastrutture simboliche, il sangue ossidato dissimula se stesso, imponendosi come materia pura e fugando indirettamente i sospetti su qualsivoglia tentativo di spettacolarizzazione. Nessuna furbata alla Cattelan, insomma: di strillato c’è giusto il nome della mostra – “Baruffa in galleria” -, stampato a caratteri cubitali sulla prima pagina di un immaginario quotidiano di Luongopoli. in cui l’incarnazione paperinesca dell’artista, sbattuta fuori con una pedata dall’invisibile “mecenate”, esorcizza celiando l’apprensione del debutto. Per fortuna, stavolta è andata diversamente.

(pubblicato sul “Roma”, 19 gennaio 2007)

Sorridere “scamazzando” Pulcinella

14 dicembre 2006

L’ironia dell’artista napoletana Roxy in the box alla galleria di Franco Riccardo

Roxy In The Box_ Martiri_ 2006_ acrilico su tela_150x150cm

«Io a Pullecenella ’o scamazzasse!». L’espressione è indubbiamente colorita, ma fra quelli che la conoscono nessuno se ne stupisce. E quelli che non la conoscono ancora potranno rimediare, da stasera fino alla fine di gennaio 2007, grazie alla galleria Franco Riccardo Arti Visive, in via Santa Teresa al Museo 8, dove “Roxy in the box” ha finalmente deciso di “rompere la scatola” per esporsi nella sua città. Un’attesa e anomala prima volta, per una che (testimoni il curriculum e l’occhio clinico di numerosi curatori) non è certo una debuttante, ma, a differenza di altri, partiti da Partenope spesso senza riuscire ad allontanarsene, ha preferito fare il giro largo, quasi a prendere le distanze da certi luoghi. Comuni. Soprattutto per lei, artista “pop-olare” che, pur affondando lo sguardo e il pennello nei Quartieri sotto casa, “è” e non “fa” la napoletana, esecrando il malcostume di trasformare i vicoli in terreno di coltura per i batteri del bozzettismo e i virus dell’oleografia, compresa quella negativa che oggi fa tanto engagé.
Lo confermano i dipinti in mostra, sgargiante e scattante carrellata di “Pulp…azioni” di grande formato che, pur spuntate in un humus fertile e fortemente caratterizzato, si prestano agevolmente al trasferimento in altri contesti, parimenti vessati dal dilagare di una sottocultura della violenza e della sopraffazione. Un mondo truculento e volgare, in cui adolescenti dalle sembianze extraterrestri, per niente ingentiliti dal prezioso parato retrostante, ostentano gli attributi con strafottente arroganza, e dove una spaventosa minaccia di annientamento come “T’aggia scassà ‘o sanghe” diventa pretesto per snocciolare il rosario-tormentone di un accattivante videoclip, protagonista un ambiguo e impomatato “marsigliese” in coppola e sciarpina griffata, che pare reduce più da una passerella Dolce & Gabbana che dal 41 bis. Ancora una volta, il lavoro tritura provocatoriamente gli stereotipi sacri e profani del Paese d’o sole, giallo come la tutina incollata addosso alla storica venditrice di banane della Pignasecca, parodistica e verace risposta alla sposa guerriera del cultmovie di Tarantino, cariatide che chissà quante ne ha viste, ma che probabilmente non ha mai gustato quell’“Aperitivo in centro” pubblicizzato dal raffin/effer-ato manifesto su cui campeggia la scritta “Martiri” (dove andrà l’accento?), residuo di una lunga fase di manipolazione delle icone consumistiche.
Le tinte vivaci, l’ironia dei titoli, il carattere franco e brillante delle opere e dell’autrice non traggano in inganno. La realtà è terribilmente amara e sconfortante. Lo denunciano l’insofferenza, mimata col linguaggio dei sordomuti in una sequenza di nove disegni, e il disincanto del dittico autobiografico “Cento colpi di sega”, malinconica parafrasi del rituale femminile di spazzolarsi le chiome prima di andare a dormire. Un momento di riflessione, uno spazio di libertà, forse l’unico della giornata, in cui, però, non sempre affiorano pensieri lieti. A mo’ di capelli recisi, a cadere qui sono le illusioni, che si squagliano come il ghiacciolo in pugno al ragazzo, che ci ricorda quanto sia “Duro da tener duro”.

(Roma, 14 dicembre 2006)

         

Danilo Correale

10 novembre 2006

Napoli, Franco Riccardo

Candide illusioni. Poetiche evasioni. Palloni gonfiati di luce. Estemporaneo e progettato, un sogno che più bianco non si può. Così Danilo Correale racconta il suo volere volare…

Illuso, ma tutt’altro che povero. Cento ne pensa e mille vorrebbe farne Danilo Correale (Napoli, 1982), promessa della Young Neapolitan Art scelta da Franco Riccardo per proseguire un autunno volutamente e provocatoriamente local. Sperimentatore curioso e meticoloso, restio all’iscrizione in questo o quell’albo professionale, alla prima esperienza in galleria opta per un battesimo effetto flou, archiviando la buona partenza dello scorso anno all’Accademia di Belle Arti, quando le complicate grafiche modulari ispirate ai numeri di Fibonacci attrassero più d’un apprezzamento. Invece di fossilizzarsi sotto gli strati di resina e silicone all’epoca copiosamente impiegati, il “debuttante” presenta qui i frutti di una ricerca che deve avergli fatto passare qualche notte… in bianco. Questo, infatti, il colore che domina un percorso elegante e coerente, cui si perdona anche qualche ingenuità concettuale, come il lattiginoso dittico-manifesto “Art is my illusion. Illusions are your art”. Consapevole dell’assunto lapalissiano “di bianco non ce n’è uno solo”, il piccolo chimico da atelier presta la massima attenzione a non sbagliare candeggio, manipolando la tinta della purezza come bambagia fosforescente, visione fantasmatica, fiocco di luna, sospiro di neon. (altro…)

ahalt