Al Palazzo Reale di Milano cinquanta opere della Gentileschi ne ricostruiscono il profilo
Artemisia Gentileschi_ La ninfa Corisca e il satiro_ Olio su tela, cm 155 x 210_ Iscrizioni: firmato a destra, su un albero: “ARTEMISIA / GENTILES / CHI”_ Collezione privata © Luciano Pedicini, Napoli
Per Artemisia Gentileschi al Palazzo Reale di Milano, gli ingredienti del successo c’erano tutti: la singolarità del caso, la storia a tinte forti e un dispiegamento di mezzi che riuniva, seppur con rammarico per i prestiti negati, i grandi musei e quelli più defilati, accanto ai “soliti ignoti” (e fortunati) privati. Soprattutto c’erano –e ci saranno fino al 29 gennaio – i quadri. Alcuni riusciti, altri meno, come si conviene ad un progetto teso non alla celebrazione acritica, ma ad estendere una disamina scientifica già avviata vent’anni fa dalla mostra di Casa Buonarroti, a Firenze.
Una cinquantina di opere in tutto, per farsi un’idea di chi e cosa sia stata Artemisia. Senza bisogno di insistere morbosamente sugli aspetti “romanzeschi” della sua vita (già indagati da una letteratura che spazia dai poeti coevi al romanzo omonimo di Anna Banti, fino ad Alexandra Lapierre e Susan Vreeland), e ad onta della passione citata nel titolo e dello scenografico “prologo” ideato dalla regista Emma Dante per accogliere i visitatori: un enorme letto sovrastato da una pioggia di carte, che grazie a un gioco di luci si tinge progressivamente di rosso sangue. Palese riferimento a quel processo per stupro che vide sul banco degli imputati il pittore Agostino Tassi, reo di aver “forzato” la giovane figlia di Orazio (per chi volesse approfondire, si rimanda agli atti del processo curati per Abscondita da Eva Menzio): un pasticciaccio brutto non privo di motivazioni economiche, tale da scatenare in età contemporanea una ridda di interpretazioni psicanalitiche e protofemministe relative ad una produzione costellata di efferati supplizi (Giuditta e Oloferne, Giaele e Sisara) o di allusivi episodi biblici (Susanna e i vecchioni), che si contendono la tela con Maddalene più o meno penitenti, e tutte invariabilmente carnalissime.
Come del resto appare la stessa Artemisia nell’autoritratto in cui pizzica le corde di un liuto: procace, quasi sfrontata, ma soprattutto fiera dei propri talenti e dello status raggiunto. E che, lasciata in tutta fretta la corte medicea (corrisponde, tra gli altri, con Galileo), dopo un passaggio a Roma – giusto il tempo di sbarazzarsi di un marito di comodo, impalmato subito dopo lo scandalo – arriva nell’unica capitale esistente all’epoca in Italia: Napoli.
Ma come arriva la Gentileschi all’ombra del Vesuvio? Mercé un prestigioso protettore – il viceré duca di Alcalà – e non certo da fenomeno anomalo, basti ricordare un’altra “tavolozza” muliebre, Diana De Rosa. Nel Viceregno la pittrice vivrà per oltre vent’anni (fatto salvo il biennio 1638-40 in Inghilterra, per raggiungere il padre) e il lavoro alla sua bottega non mancherà: tra i pezzi forti della mostra meneghina, freschi di restauro, “Il miracolo di San Gennaro nell’anfiteatro” e “I santi Procolo e Nicea” eseguiti per la cattedrale di Pozzuoli, tra le rare commissioni pubbliche ottenute dall’artista, in un ambiente contrassegnato da una competizione estrema, ma anche qualitativamente eccezionale.
Eclettica e ricettiva, Artemisia vive la stagione d’oro della pittura napoletana (e, nel catalogo edito da 24 cultura, il sempre prezioso Renato Ruotolo ne analizza il mecenatismo), in cui rifulgevano gli astri di Ribera, Stanzione, Falcone, Vitale, insieme a quelli dei “forestieri”, in testa Reni e Domenichino. Ella assorbe come una spugna, e restituisce. Aperto e tutto da approfondire il capitolo delle sue collaborazioni: per lo sfondo architettonico del già citato “Miracolo di San Gennaro” sono stati avanzati i nomi di Viviano Codazzi e del più accreditato Micco Spadaro; intenso pure il rapporto con Onofrio Palumbo, senza dimenticare il pesante “debito” che nei suoi confronti contrae Bernardo Cavallino.
Gli ultimi documenti sull’esistenza della Gentileschi si fermano al 1654, termine ipotizzato per la morte. Oggi la sua tomba, indicata dalle fonti in San Giovanni de’ Fiorentini, non esiste più. Rivive però la sua leggenda, fiorita mentr’era ancora in vita, a colpi di encomi o di versi ingiuriosi. Un po’ divina, un po’ puttana Artemisia. Ma soprattutto pittrice. Anzi, per molti, “la” pittrice.
(Roma, 17 gennaio 2012)
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