Tubi rossi e teli bianchi. Tavolati di nudo legno. A guidare, orientare la visione.
Non tutte le sculture hanno bisogno dello sguardo a trecentosessanta gradi, tanto più che quelle di Rodin giocano sovente a negarsi: volti nascosti, fusi gli uni negli altri; corpi raccolti, le cui tornite e imprevedibili emersioni sostituiscono spesso la “parola” illeggibile sul viso.
Le impalcature dell’allestimento ideato da Didier Faustino, a metà fra l’atelier e l’officina, si addicono alla scultura, disciplina convenzionalmente ritenuta “banausica”. Del lavoro sono evidenti le tracce concrete, nelle masse che emergono dalle pietre gonfie come nuvole, nelle diverse declinazioni di non finito che lasciano nudi i segni degli strumenti. Lavoro come produzione, visto che l’artista, realizzati i bozzetti, demandò sempre più spesso l’esecuzione agli sbozzatori. Tramonto del titanismo romantico, specchio dei tempi moderni.
Le opere esposte a Milano sono perlopiù “piccole”, rari i pezzi di dimensioni monumentali. La solennità risiede piuttosto nelle espressioni: il ritratto di Puvis de Chavannes, per esempio, dove il gioco della luce sul velo della superficie anima la testa che sorge, massiccia, dal blocco. (altro…)
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La fotografrice degli apri
25 novembre 2013
Eran trecento, più cinquanta devolti, e son molti!
Me ne stavo al piccì a navigare
quando ho visto un’email da vagliare:
mi si parava una grande occasione
purché versassi un bel guiderdone.
Vuoi fare una mostra, il prossimo anno?
Grandi successi ne giungeranno;
ne giungeranno a frotte, a bizzeffe
è cosa seria, e non sono beffe.
Eran trecento, pronto cash come accordi, e son soldi!
È cosa seria, e non sono beffe,
per voi patiti dell’arte con l’Effe.
Chi per diletto, chi per mestiere
quanti di voi hanno foto in cantiere?
Ad una ad una le condizioni:
innanzitutto non v’han produzioni;
poi torna cento a fondo perduto
se non gradiamo il tuo contenuto.
Eran trecento, non vengono estorti, tua sponte disserra le casseforti!
Con l’occhio a spillo e il capello a vapore
se ne vantava il buon curatore.
Lui sol patrono, lui solo il divo
della rassegna dell’obiettivo.
Mi feci ardita e, pronta al dialogo,
gli chiesi tariffa per il catalogo.
Guardommi, e mi rispose – O mia sorella,
Vatti a morir, per la porca padella!
Eran trecento, vogliamo proporti, pur se in bonifico tu ce li porti!
Chi paga sviluppo, gancio, trasporto?
Ma ci pensi tu, col collo obtorto!
E poiché tutti famiglia si campa
ti diciam noi ove fare la stampa.
Ci van le cornici col passe-partout
e se butta bene vai pure in tivvù!
In analogico e in digitale
s’incarca l’artista del materiale.
Eran trecento e, se ci supporti, certe saranno tue vaghe sorti!
Eran trecento, e non c’erano sconti,
creativi scattanti versate gli acconti:
è solamente per un contributo,
poi l’inclita musa correrà in vostro aiuto.
Ma quando verremo della Mostra ai muri
ho tema che i tempi si faran duri,
ché in pochi centimetri a fare scintille
ci pigeremo in metà di mille.
Eran trecento, in assegni o contanti, signori ambiziosi fatevi avanti!
Vedrete saran giudici insindacabili
dei vincitori bilance implacabili;
io speranzosa di entrare nel novero
riceverò la manina sull’omero.
Oh me tapina, che delusione!
Mi butterò giusto sotto il balcone!
Oppure impipandomi del solito noto
continuerò con piacere a far foto.
Eran trecento, forse non molti, ma se glieli date… poveri stolti
Pavor nocturnus
6 novembre 2013
La sera, tornando a casa, guido lentamente. Prima, seconda, terza. Seconda, terza, seconda. Rotonde, luci arancioni. Una mano sul volante, l’altra dimenticata. Cercando di raschiare dai polmoni le parole intrappolate.
Le parole che mi hanno tradito anche stasera. Che mi consegneranno domani all’Inquisizione degli sguardi, alla gogna dei sussurri.
Dal diaframma, l’ingorgo mi intoppa fino alla testa. È lì dentro che accade tutto di me. Sono solo questo, ultimamente. Spazio compresso, occupato al millimetro. In lotta per non soccombere alla paralisi.
La rotonda dopo il ponte. L’abitudine mi fa prendere a sinistra.
Maledizione. No.
Perché anche stanotte la vedo. La vedo di nuovo, esattamente dove l’ho vista la settimana scorsa.
Rattrappita nella mia quattroruote, costeggio l’argine del fiume e la vedo. Nel buio mi appare splendente, spaventosa: io in bici. Testa alta, gambe che mulinano. Come nelle mattine di nebbia e di sole scampato, quando aspetto di arrivare davanti a quella schietta seminata di pioppi. La mia piccola Russia, e me stessa un’eroina di Tolstoj, nel boschetto di betulle.
Ma la notte, dopo la curva, dopo che hai dato la precedenza a qualcuno e scavalcato il dossetto zebrato, c’è solo il buio. E nelle tenebre io pedala. Un doppelgänger raggiante come una santa di Tintoretto. Sbuca fosforescente dal nulla, scivolando nel buio come una medusa elettrica.
E non mi guarda.
Io tira dritto e, mentre sono ormai al sicuro, so che si perderà nelle tenebre dell’argine umido. (altro…)