Un po’ di Campania ad Artefiera

3 febbraio 2018

Alberto Di Fabio nello stand di Umberto Di Marino

Tre giorni di appuntamenti a Bologna – da oggi a domenica – per la 42ma edizione di Arte Fiera diretta da Angela Vettese. Una kermesse che però, tra le quasi 150 gallere presenti, parlerà poco campano. Prima di citare chi c’è, infatti, si fa prima a citare chi non c’è. Tra quelli che si notano di più se non vanno, spiccano Alfonso Artiaco e Lia Rumma. Il primo, notevole alla scorsa Artissima, a Torino, per lo stand d’artista ideato da Liam Gillick, preferisce da tempo saltare il primo appuntamento del calendario fieristico nazionale e risparmiare le proprie energie fino all’inizio della primavera, quando sarà ad Art Basel in Hong Kong; nel frattempo, congederà – sabato 3 – “The beard pictures” dei venerati Gilbert & George. Salterà il turno anche Lia Rumma, ormai sempre più milanese (ma di recente, in via Vannella Caetani, è stata apprezzata la personale di Gian Maria Tosatti, “Damasa”). Chi è invece intenzionato a prendersi tutto lo spazio che merita tra gli stand felsinei è Umberto Di Marino, il quale da tempo ha “arrotondato” i propri interessi latinoamericani e portoghesi senza però trascurare gli italiani su cui investe da tempo: nella folta pattuglia arrivano in Main Section Jota Castro, Santiago Cucullu (attualmente nella galleria di via Alabardieri con “The new old days”), Alberto Di Fabio, Luca Francesconi, Francesca Grilli, Satoshi Hirose, Francesco Jodice, Ana Manso, Pedro Neves Marques, Marco Raparelli, André Romao, Eugenio Tibaldi, Vedovamazzei, Sergio Vega e il compianto Vettor Pisani; nella sezione “Modernity”, a latere, il venezuelano Eugenio Espinoza, artefice lo scorso autunno della performance “Walk in progress” nella chiesa di San Giuseppe delle Scalze, restituirà il suo sguardo storico sul Modernismo. Nomi storici e molta fotografia nello stand di Laura Trisorio, membro, tra l’altro, del comitato di selezione: Alfredo Maiorino, Carlo Alfano (omaggiato, fino al 22 aprile, da una retrospettiva al Mart di Rovereto), Fabrizio Corneli, Francesco Arena, Jan Fabre, Luciano Romano, Raffaela Mariniello, Rebecca Horn, Robert Polidori, Stefano Cerio e Umberto Manzo. Ma se Napoli resta, per così dire, sulle sue, senza timidezze avanzano Caserta e Salerno. Da quest’ultima arriva il volto noto di Paola Verrengia, con una prevalenza di pittura e scultura: Martin y Sicilia, Kaori Miyayama, Pino Pinelli, Michele Chiossi, Luigi Mainolfi, Amparo Sard, Filippo Centenari, Emanuela Fiorelli, Maria Elisabetta Novello. Particolarmente attivo negli ultimi anni, anche con progetti ospitati nella Reggia vanvitelliana, dalla Terra di Lavoro arriva tra le brume padane Nicola Pedana con una precisa e promettente scelta di campo: pittura, pittura e ancora pittura, senza limiti di età. Paolo Bini, Marco Gastini, Matteo Montani, Pino Pinelli, Tino Stefanoni e Marco Tirelli; unica eccezione, la scultura di Vittorio Messina, per uno spazio tutto sommato “giovane” e che ha ancora molta, molta voglia di crescere.

(Articolo pubblicato sul Roma, 2 febbraio 2018)

Unus papilio erat

26 gennaio 2018

Giovanni Gaggia_ Unus papilio erat

La natura, la memoria, il tempo costituiscono la linea d’orizzonte di Giovanni Gaggia. Il suo è un passare sulla terra leggero, anche quando intinge le dita nel sangue, che siano le grandi tragedie della storia o l’interior hominis. Corpo politico, corpo animale, corpo (a)sessuato, materno e maschile insieme: una molteplicità di passioni che non perde mai di vista la poesia.
Perché, anche di fronte ad un progetto polifonico, collettivo, l’artista non banalizza la partecipazione degli elementi esterni, riducendola a pura presenza, ma cerca sempre di stabilire un contatto intimo. Nel suo lavoro, l’altro è fondamentale – come partner, come sguardo, come esecutore – e la condivisione è un’esperienza pensata per risuonare su lunghe distanze.
È il caso di questa “ceramica organica”, stadio finale di un’opera realizzata oltre dieci anni fa. Un cuore mummificato, depurato della traccia ematica. Ormai innocente come un pane. “Unus papilio erat”: una volta aperto, sembrava una farfalla. Ma è stato ricucito. Suturato e protetto, fa scudo a sé stesso. Impreziosito dal gesto di che ne ha tratto un calco, rinato dal negativo: dalle mani che l’hanno plasmato e dal calore che gli ha donato durezza e luce. Puro e incorruttibile, eppure fragile.
Un meraviglioso oggetto estetico, icona del suo creatore. Appello, fede nell’arte e nella vita in forma di litote.
Un cuore così bianco, generato da mani rosse di sangue e di fuoco. Precipitato alchemico di un unico, continuo viaggio, qui arrivato ad una nuova destinazione.

(Testo per il catalogo BACC – Biennale d’Arte Ceramica, Frascati, 27 gennaio – 28 febbraio 2018)

Caravaggio genio pentito. Prorogata la mostra milanese a Palazzo Reale

19 gennaio 2018

Caravaggio_ Madonna di Loreto_ c.1606 (olio su tela); 260×150 cm; Chiesa di San Agostino, Roma; De Agostini Picture Library

Gente, accorrete. Prorogata fino al 4 febbraio l’occasione di ammirare il più malinteso e spolpato fra i pittori da almeno tre decenni in qua: Michelangelo Merisi. Non bisogna dar certo la colpa alla buonanima di Longhi e alla sua riscoperta se è più o meno dai Novanta del secolo scorso che di Caravaggio non se ne può più. In tutte le salse, in tutti i laghi in tutti i luoghi; e pure mezza opera di dubbia paternità val bene una coda alla cassa. Romanzi, gialli, tombe finte, test del dna, un’attribuzione al mese (disegni compresi). Per non parlare delle “Experience”, in cui l’alta definizione pretenderebbe di accompagnare i paganti in un’indimenticabile immersione dentro un dipinto che dipinto non è stato.
Quando però la ruota del mondo gira per il verso giusto, è la tecnologia ad essere al servizio del quadro, quello vero. Stavolta è successo. Settant’anni dopo (correva il 1951), il figlio di Fermo e Lucia torna a Palazzo Reale, a Milano, città dov’è nato, vissuto l’adolescenza e dalla quale è fuggito, non si sa bene perché.
La mostra è bellissima, di quelle che valgono l’attesa al freddo e il prezzo del biglietto.
Purtroppo, è impossibile vederla senza quell’approccio “emotivo” che spesso ha inquinato e tuttora condiziona la conoscenza di – è ancora necessario ricordarlo – un artista. Uno che ha scelto la tela e l’ha preparata. Ha deciso e impastato i colori. Studiato la luce, la disposizione, l’iconografia, che fossero mezze figure, nature morte o scene di martirio.
Non una star bohemienne, o il protagonista di una fiction cappa&spada&sesso, ma l’“Egregius in Urbe pictor”.
Purtroppo, si diceva, perché le emozioni tendono a sbandare pericolosamente verso un godimento estetico, sensuale, quasi erotico, divagando da una visione lucida e informata. Anche laddove si riesca a non abusare di riferimenti come “carne”, “sangue”, “maledetto”, “assassino”, spesso – pure in storici e critici – agisce insopprimibile una tendenza ad abbandonarsi a toni lirici, narrativi o alati nella descrizione – non già nell’analisi – della produzione del lombardo.
Quando poi c’è un’infilata di venti capolavori (anzi diciannove: la “Sant’Orsola confitta dal tiranno”, ultima e documentatissima opera del periodo napoletano, è stata trasferita in progress qualche metro più in là, alla mostra di Banca Intesa, e sostituita da una riproduzione), l’ebbrezza rischia di trasformarsi in una sbornia da ciclopi.
La rassegna di Palazzo Reale, allora, par che miri a stemperare l’eccesso di passionalità con la sfida a guardare il lato “b” di Caravaggio. È questa, più che la quantità di quadri esposti, a segnare la differenza: proporre una disamina scientifica ad un pubblico che era facile supporre variegato e popolare. Il quale, una volta sbattuto di fronte alla bellezza e alla potenza del quadro, gira l’angolo, schiaccia l’apposito tasto dell’audioguida e guarda e ascolta una diagnostica che istruisce brevemente su materiali, pigmenti, cadute, incisioni, ripensamenti, ductus. Perché proprio quei verdi, quei rossi, quei bianchi. Perché tutto quel lusso cromatico, pur di contro a un disegno talvolta impreciso e segnato da licenze, con errori prospettici e proporzioni che lasciano perplessi. Tanto, alla fine, al Merisi si perdona tutto: remissione dei peccati mercé i colori, le composizioni, le soluzioni. Le idee, insomma: quelle che altri non ebbero e lui sì. Quelle che altri non ebbero il coraggio di avere e lui sì.
L’“experience” allora è vedere da vicino, vicinissimo, la Pala della Madonna dei Pellegrini (che causò estremo schiamazzo allorquando fu issata sull’altare della chiesa di Sant’Agostino a Roma), o l’eroica Flagellazione di Capodimonte, i due San Giovanni aggrondati e pasoliniani uno accanto all’altro e la Marta e Maddalena di Detroit. Entrando dentro il mestiere del pittore, che maneggia materia viva e mutante, difficile e pensata, al di là dei luoghi comuni sull’impeto del genio violento e svogliato che aveva studiato all’università della strada più che nelle botteghe di Peterzano e del Cavalier d’Arpino. È questo passaggio “a raggi x” la scommessa più coraggiosa e vincente della mostra meneghina.
E se abbiamo esagerato con i complimenti e con gli aggettivi, perdonate.
Sarà l’emozione.

(Articolo pubblicato su Artslife, 18 gennaio 2018)

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