Uomini, una specie che si difende

27 aprile 2020

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Droni che sorvolano città deserte, restituendo scenari metafisici là dove prima c’era il caos. Sparuti passanti, posti di blocco. Medici e infermieri protetti da dispositivi che li rendono irriconoscibili. Alieni in corsia, alieni per le strade. Alieno ormai il mondo. Quel pianeta che non abbiamo creato, ma preteso di plasmare a nostra immagine e somiglianza, in una forma diseguale e – a quanto pare – tutta sbagliata.
Ma cosa fanno gli artisti, nel frattempo di questo tempo nuovo e sospeso?
Se l’è chiesto, e lo ha chiesto, Brigata Es, sigla di produzione estetica creata nel 1992 da Aldo Elefante, che dall’inizio dell’epidemia ha iniziato a documentare l’era Covid-19 in “Apocalypse Now” e “artists’ antivirus selfies archive”. Ad accomunare i due filoni di ricerca la pubblicazione sui social network, l’uso del bianco e nero (l’unica scelta, acromatica, atta ad esprimere il dramma, vedi Guernica) e – spiega l’artista napoletano – l’idea di «umanità come specie che si difende. “Apocalypse Now” è un archivio analitico d’immagini, si inscrive quindi nel campo della cultura visuale, mentre “artists’ antivirus selfies archive” è un archivio di esistenze di matrice antropologica, come “Cittàlimbo Archives” in collezione al museo Madre».
Da un lato, dunque, il mondo globalizzato, distanziato, malato; dall’altro, l’individuo solo con se stesso. In mezzo, un concetto sempre più vago di comunità che, proprio mentre viene imposto dal virus con la forza, si sfilaccia e disperde. Ma gli artisti, in fondo, non appartengono ad un’“altra” società, sovranazionale e interconnessa? È solo un cliché romantico?
Brigata Es ha chiesto ai suoi colleghi di farsi un selfie, un autoscatto. Gesto solitamente narcisistico, edonistico, preso qui a testimoniare una tragedia collettiva, e con l’aggiunta di un elemento omologante: la mascherina. La tentazione, per lo spettatore- voyeur, è quella di sbirciare alle spalle, più che di soffermarsi su quei volti mezzi nascosti. Non riuscendo a fissare gli occhi negli occhi, retaggio di una realtà cui siamo già disavvezzi, dopo aver individuato la faccia lasciamo lo sguardo frugare lo sfondo, alla ricerca di un’intimità surrogata: un quadro, dei libri, il balcone, un pezzo di giardino, molte pareti bianche. Viene pure in mente che, dopo tutto, la mascherina anche prima faceva parte del solito “corredo” di chi si è autoritratto: l’artista è uno che fatica con materiali puzzolenti, polverosi, a volte tossici, pericolosi. Si protegge, ma quanto si sporca col mondo?
Abbiamo chiesto ad Aldo Elefante di illustrarci entrambe le declinazioni di questo work in progress.

“Apocalypse Now” preleva immagini dalla Rete. Quali sono il processo e gli obiettivi di questo lavoro?
Quando ha cominciato a profilarsi al nostro orizzonte l’attuale apocalisse ho pensato di utilizzare le immagini proposte dall’informazione e reperibili in rete, per una selezione quotidiana nelle mie pagine sui social network. “Apocalypse Now” è nato soprattutto dalla necessità di analizzare come viene raccontata dai media questa pandemia e dall’idea di farne un archivio, sottraendo frammenti del repertorio iconografico prodotto al flusso continuo dei dati. Tratto queste immagini come readymade. Le rendo omogenee virandole in bianco e nero ed apponendovi le barre nere, che nei miei lavori sono il segno della codificazione in immagine del reale e della selezione dello spazio visivo che offro al fruitore.

In merito all’“artists’ antivirus selfies archive”, quante sono le adesioni? C’è stato qualche rifiuto?
In questo momento ho ricevuto circa 200 fotografie. Ho invitato gran parte degli artisti che ho conosciuto. Molti hanno aderito, una minoranza non ha risposto o ha risposto negativamente. La cosa importante è che siano stati archiviati i selfies degli artisti liberi, e cioè di quelli che riescono a partecipare anche ad un’iniziativa indipendente e non aspettano solo l’invito dai padroni del mercato.

L’artista lavora sempre in emergenza: è un luogo comune o c’è una parte di verità?
La maggior parte degli artisti di mercato teme l’emergenza perché lavora quasi sempre su commissione. Molti artisti svincolati dalle logiche mercantili poi danno luogo a reazioni fuori luogo, come molte delle opere ospitate dai mercatini virtuali presenti attualmente sui social network. Solo gli artisti autentici vivono e affrontano i “tempi interessanti” (come recitava il titolo della scorsa Biennale di Venezia, ndr).

Altra frase fatta: la creazione è un atto solitario. Adesso, però, come incide sugli artisti la mancanza di contatti e di relazioni?
In questo momento c’è un isolamento dei corpi, ma ritengo che mai come in questo momento siamo in relazione e contatto grazie al secondo reale digitale.

Cosa distingue la “cattività” di un artista dall’isolamento di chi artista non è?
L’isolamento è una condizione naturale di chi pratica l’arte, che non lo vive come uno stato di costrizione. Quello che l’artista sente forte in questo momento è la prigionia degli altri.

Le barre nere apposte sulle immagini ricordano il cinema. Come finirà questo film?
Le barre nere le uso anche perché il cinema le ha depositate nella mia memoria. Non posso rispondere alla tua domanda perché quello che stiamo vivendo non è una rappresentazione. Questa minaccia invisibile che sembra fuoriuscita dal noumeno mette in crisi la condivisa Weltanschauung ed anche la nostra concezione del tempo.

(Articolo pubblicato sul Roma, 27 aprile 2020)

Malato uguale marchiato

31 marzo 2020

Lui è Jonathan. Balbuziente. Gay. Colto. Istruttore di yoga. Scrittore. Sieropositivo. Jonathan è tutto questo, ma non è solo questo. Perché una malattia può arrivare a darti quella forma che hai sempre inseguito, un’identità attorno alla quale cucire tutto il resto, ogni più piccola sfumatura, ogni passione, ogni progetto.
Fin dalle prime pagine, si capisce come la “Febbre” di Jonathan Bazzi vada oltre quelle linee di mercurio, inchiodate intorno al 37, che conducono alla diagnosi: HIV. Un tempo sentenza senza appello, oggi subdolo “ospite” tenuto alla catena dalle terapie antiretrovirali. L’infezione non è più il nemico vistoso di qualche anno fa, eppure non è sparita: migliaia di invisibili sono tra noi, tra i nostri amici, colleghi, conoscenti. Jonathan ne prende consapevolezza ogni volta che varca la soglia del Sacco, l’ospedale milanese dove, nel 2016, comincia la sua nuova vita. Una vita spaccata tra un prima e un dopo. In mezzo, domande laceranti sul passato e sul futuro; giorni passati a compulsare il “dottor Internet” in cerca di un altro malanno; ore d’inerzia e depressione, di debolezza e fragilità.
L’amore: ecco l’altra grande “febbre” che suda tra le pagine del volume. Non tanto come pulsione erotica e autolesiva, ma soprattutto nell’itinerario di un’altra, cocente malattia: quella del non-amore, dell’abbandono, la ferita del bambino invisibile, cresciuto in una di quelle famiglie che gli psicologi classificherebbero come “disfunzionali”. Lo sfondo è Rozzano, “Rozzangeles”, “il Bronx del Nord”, “una specie di Sud senza il calore del Sud”, “Sud sradicato e reimpiantato in fretta”.
Ed è, questo “Sud sequestrato, incattivito, in cattività”, esso stesso malattia inestirpabile, appiccata addosso come una seconda pelle, una lettera scarlatta che non ti abbandona mai. Segnato, Jonathan. Minato dalla balbuzie, che lo espone al bullismo e alla macerazione ossessiva del controllo (“Sarò il più bravo. Il più bravo di tutti”), in una carriera scolastica altalenante. Additato per la sua omosessualità, per le scarpe luccicanti e i giocattoli da femmina, si rifugia in un mondo glitterato di eroine e principesse invincibili. Jonny conosce troppo presto la vergogna e la colpa, l’umiliazione che brucia le guance e torce le viscere. Finché l’HIV gli farà capire che “il resto ce lo metti tu, ce lo mettiamo noi”, e che si può essere padroni della propria esistenza.
“Ma sei sicuro? È proprio necessario? Chi te lo fa fare? Guarda che una volta che l’hai fatto non si torna più indietro”: queste le reazioni quando lo scrittore Bazzi annuncia di voler “fare qualcosa” col “suo” virus, per non subirlo. E cos’altro, se non metterlo nero su bianco? Prima un articolo, poi un libro, intrecciando – anche nella struttura narrativa – quel prima e quel dopo. Ripercorrere il filo dei giorni, degli anni, in un momento in cui la diagnosi sta rinsaldando il filo dei legami: la mamma, che sostiene con la sua concretezza; il fidanzato, che resta col suo amore. A prendersi cura di un corpo che, dopo un pellegrinaggio da un ospedale all’altro, torna ad essere una persona. Jonathan scrive, dichiara al mondo, e il pubblico si spacca tra haters e ammiratori. Essere sieropositivi non è un tabù, i tempi della pubblica gogna e del linciaggio sono finiti, eppure… Ci pensa allora la parola a far barriera, a disinnescare il pettegolezzo e l’odio. Nel frattempo, la vita scorre tra il lavoro, lo yoga, le cene fuori, i controlli in ospedale, il caffé del mattino e una pillola da prendere molto regolarmente: un confetto rosa che entra nella routine di coppia e nelle serate tra amici. Una vita senza colpa né vergogna. “Luce ovunque, si veda tutto”.

(Articolo pubblicato sul Roma, lunedì 30 marzo 2020)

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