Architettura e urbanistica dell’età di Murat

6 settembre 2006

libri_architettura (electa napoli 2006)

Quando eravamo progressisti. Per davvero. Un riformismo a passo di carica, quello dei napoleonidi napoletani, cui bastarono dieci anni per cambiare i connotati alla città…

Tagliare l’istmo di Capo Palinuro per rendere più agevole la navigazione. Soluzione indubbiamente drastica, di quelle che qualsiasi piano regolatore oggi (probabilmente) boccerebbe. Eppure due secoli fa qualcuno ci provò, spinto dalla necessità politica e dal desiderio personale di far germogliare dal suolo di Napoli una nuova età dell’oro, ufficialmente principiata nel febbraio del 1806 e archiviata nei libri di storia alla voce “decennio francese”. A ripercorrere e sintetizzare i due lustri che cambiarono il volto della capitale del Mezzogiorno e, seppur in modo marginale, delle sue province è Marilena Malangone, ricercatrice presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli Federico II e autrice di un testo articolato, esaustivo e di agevole lettura. Partendo da un’opportuna contestualizzazione storica, il volume evidenzia come l’arrivo dei parenti stretti di Napoleone prima il fratello Giuseppe e poi il cognato Gioacchino Murat- segni una svolta radicale per la terza città più popolosa d’Europa, che fino a quel momento aveva conosciuto uno sviluppo irregolare e incontrollato, con pesanti ricadute sull’ordine –o, meglio, sul disordine- sociale, di cui neppure l’assolutismo illuminato e faraonico di Carlo III di Borbone era riuscito ad avere ragione. (altro…)

George Lilanga

27 gennaio 2006

Napoli, Franco Riccardo Arti Visive

Nel continente nero… alle falde del Vesuvio. È un inno alla vitalità quello di Lilanga che, per amore della sua terra, ne sfidò i pregiudizi. In mezzo alla colorata confusione degli smalti, anche il mal d’Africa…

Traditore. Stregone e seguace dello stregone. Tutto questo è, o meglio era, George Lilanga (Masasi, 1934 – Dar Es Salaam, 2004), che osò offendere col colore la serietà dell’ebano e oltraggiare la scultura trasformandola in pittura. Che violò un tabù, sottraendo la creazione d’immagini all’appannaggio magico-sapienziale della trasmissione ereditaria (di qui la metafora dell’artista-stregone) ed inserendola in un sistema imprenditoriale. Vale a dire, in un circuito di diffusione e di consumo. Desacralizzata tra le pareti di uno studio che, all’apice del successo faticosamente guadagnato, sfornò centinaia di pezzi, la produzione di Lilanga iniziò così a parlare al mondo della Tanzania e della tradizione makonde. Non fu facile, ma alla fine, dopo l’ostracismo e l’anatema dei suoi, tanta “tracotanza” venne perdonata, e perfino premiata. Grazie a lui, pure l’Occidente dovette accorgersi che il Continente Nero era, in realtà, colorato, anzi coloratissimo -lontano da quel primitivismo che pure, all’inizio del Novecento, aveva calamitato le Avanguardie assetate di novità, con Pablo Picasso in testa- , e che anche in una realtà in via di sviluppo un artista poteva farsi businessman e manager di se stesso. (altro…)

Domenico Morelli e il suo tempo

12 gennaio 2006

Napoli, Castel Sant’Elmo

Realtà, eros e misticismo in uno dei primi “fratelli d’Italia” col pennello. Uno spaccato risorgimentale che travalica i confini nazionali per dirigersi Oltralpe e ad Oriente. Un bagno di luce, con un pizzico di retorica…

Prima di tutto, accantonate i pregiudizi. Ma se state facendo il biglietto, o ci state pensando seriamente, significa che qualche riserva mentale l’avete già lasciata all’ingresso di Castel Sant’Elmo, dove Domenico Morelli (Napoli, 1823 – 1901) avvalora la proverbiale tesi “repetita iuvant”. Non che il pittore necessitasse di sdoganamenti postumi e riscoperte tardive, ma ai curatori è parso doveroso mettere meglio a fuoco il suo tempo: un centinaio di opere, fra le sue e quelle dei contemporanei (come Hayez, Fattori, Fortuny, Celentano, Faruffini), organizzate in sette sezioni, per dare alla monografia il giusto taglio. Così come giusto sarebbe un taglio al luogo comune che vede nell’Ottocento napoletano, pur non esente da colpe, solo il provinciale e manierato attardarsi di uno stracco naturalismo romantico, impermeabile alle novità forestiere o sterile saccheggiatore delle stesse, tutto introflesso, anzi genuflesso, su una gloriosa tradizione meridionale ancor prima che tricolore. (altro…)

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