La sera, tornando a casa, guido lentamente. Prima, seconda, terza. Seconda, terza, seconda. Rotonde, luci arancioni. Una mano sul volante, l’altra dimenticata. Cercando di raschiare dai polmoni le parole intrappolate.
Le parole che mi hanno tradito anche stasera. Che mi consegneranno domani all’Inquisizione degli sguardi, alla gogna dei sussurri.
Dal diaframma, l’ingorgo mi intoppa fino alla testa. È lì dentro che accade tutto di me. Sono solo questo, ultimamente. Spazio compresso, occupato al millimetro. In lotta per non soccombere alla paralisi.
La rotonda dopo il ponte. L’abitudine mi fa prendere a sinistra.
Maledizione. No.
Perché anche stanotte la vedo. La vedo di nuovo, esattamente dove l’ho vista la settimana scorsa.
Rattrappita nella mia quattroruote, costeggio l’argine del fiume e la vedo. Nel buio mi appare splendente, spaventosa: io in bici. Testa alta, gambe che mulinano. Come nelle mattine di nebbia e di sole scampato, quando aspetto di arrivare davanti a quella schietta seminata di pioppi. La mia piccola Russia, e me stessa un’eroina di Tolstoj, nel boschetto di betulle.
Ma la notte, dopo la curva, dopo che hai dato la precedenza a qualcuno e scavalcato il dossetto zebrato, c’è solo il buio. E nelle tenebre io pedala. Un doppelgänger raggiante come una santa di Tintoretto. Sbuca fosforescente dal nulla, scivolando nel buio come una medusa elettrica.
E non mi guarda.
Io tira dritto e, mentre sono ormai al sicuro, so che si perderà nelle tenebre dell’argine umido. (altro…)