Questa è una foto del Padiglione Corea alla Biennale 2013. Non vi preoccupate, non vi è scesa la cataratta. Poi vi spiego.
Cominciamo con la cronaca.
Innanzitutto ci mettiamo in coda.
Mentre aspettiamo, un addetto ci sottopone una liberatoria terrificante, in cui si avvisano i signori visitatori sofferenti di claustrofobia, attacchi di panico, tachicardia, ansia, vertigini e doppie punte che l’entrata è a loro rischio e pericolo.
[Dalla fila inevitabilmente principiano a levarsi impudichi coming out psichiatrici. Arrivano i primi dati aggiornati sulla diffusione mondiale dello Xanax.]
In ogni caso non c’è da preoccuparsi: in primis perché, mal che vada, possiamo scegliere di non entrare in quella stanza (ve l’ho scritto: dopo vi spiego), poi perché – ci rassicura sadicamente l’addetto – “questa è la Corea del Sud, non del Nord”.
Firmiamo, impavidi.
È il nostro turno. Fuori al Padiglione due panchine, diverse paia di scarpe. Che è, una moschea? Lasciate ogni infradito, voi ch’entrate. Ma scalzi non si può: chi non li ha, deve indossare dei calzini (made in Corea? made in China?) forniti dall’organizzazione. [Io ne ho un paio, grigi, da tennis, abbinati alle ballerine profilate di verde fosforescente, scelta che due ore prima mi ha portato sull’orlo del divorzio].
Ci danno un numeretto, indi… (altro…)