Il quarantenne napoletano esordisce da Alfonso Artiaco
Perdere peso con i fumetti. Non è l’ultima trovata di qualche bislacco nutrizionista, ma la metaforica ambizione del napoletano Raffaele Luongo, che a quarant’anni esordisce da Alfonso Artiaco con una personale molto personale – visibile fino al 3 febbraio -, intelligentemente avulsa da ammiccamenti localistici e alimentata da una fluida e aggraziata vena autobiografica, ispirata dalle fiabe di Gianni Rodari e soprattutto dalle storie disneyane, col loro segno rotondo e l’aspirazione ad una vita semplificata. Vita che, nel caso specifico dell’artista, ha origini paesane, rivendicate tramite l’installazione di secchi in cartoncino – di quelli adoperati per la mungitura del latte o lo scannamento del maiale – in cui raccogliere, o meglio distillare, i ricordi d’infanzia, zigzagando tra le piccole cose domestiche, comprese quelle, per dirla alla Gozzano, “di pessimo gusto” (vedi il quadretto di genere appeso nel tinello); oppure tuffandosi nel passato grazie al dissacrante “Idromuseo di arte contemporanea”, vasca da bagno colma d’acqua, “piastrellata” di prove acerbe private e capolavori dei maestri del Novecento, conosciuti in quello stesso spazio ai tempi di Lucio Amelio. Una gincana attraverso autentici “precipitati” mnemonici e fisici, poiché ogni pagina di questo delicatissimo diario minimo, sistematicamente titolata col nome dell’autore, è scritta col sangue. Così l’onnipresente Raffaele, che leggero non è, tende ad alleggerirsi “svuotandosi” espressivamente e concretamente, prolungando il legame intimo con opere che, custodite gelosamente dopo l’esecuzione, rimarrebbero inerti se lo sguardo dello spettatore non le consegnasse a nuova esistenza, vinta l’indole schiva e pudica del loro creatore. Il quale pare giochi a nascondino, lasciando intravedere un disegno sotto il risvolto del lenzuolo, mentre la sega a nastro scandisce la visione di un “Autoritratto senza residui”: un assordante, bianchissimo lettino da ospedale infantile, che cita il barocco con le sue riflessioni sulla vanitas e si qualifica come “caput mortuum”, termine col quale il vocabolario alchimistico designava le scorie. Un processo concettuale che, a dispetto della tecnica impiegata, aborrisce scenari cruenti o macabri: depurato da sovrastrutture simboliche, il sangue ossidato dissimula se stesso, imponendosi come materia pura e fugando indirettamente i sospetti su qualsivoglia tentativo di spettacolarizzazione. Nessuna furbata alla Cattelan, insomma: di strillato c’è giusto il nome della mostra – “Baruffa in galleria” -, stampato a caratteri cubitali sulla prima pagina di un immaginario quotidiano di Luongopoli. in cui l’incarnazione paperinesca dell’artista, sbattuta fuori con una pedata dall’invisibile “mecenate”, esorcizza celiando l’apprensione del debutto. Per fortuna, stavolta è andata diversamente.
(pubblicato sul “Roma”, 19 gennaio 2007)